Saperi

Terra in cambio di bambini

Sembra così paradossale, invece è pura realtà. Nell’ultima bozza del disegno di legge di Bilancio è stato inserito un provvedimento che ci riporta indietro di novant’anni, al tempo di Mussolini. Quell’idea, di ruralizzare l’Italia, restò un mero atto propagandistico, senza conseguenze pratiche. Ieri come oggi, dunque, l’iniziativa sarà un flop. In verità, serve altro: c’è bisogno di creare una interferenza di territorio fra agricoltura, servizi, sistema educativo e ricerca

Alfonso Pascale

Terra in cambio di bambini

Nell’ultima bozza del disegno di legge di Bilancio è stato inserito un provvedimento davvero retrivo, sul piano culturale, e propagandistico, su quello politico. Qualcosa che mira a riportarci indietro di novant’anni quando Mussolini voleva aumentare la popolazione italiana ruralizzando il Paese. Il titolo è emblematico: “Interventi per favorire lo sviluppo socioeconomico delle aree rurali e la crescita demografica attraverso il sostegno alla famiglia”. A occuparsene dovrebbero essere non solo i ministri dell’Economia e delle Politiche agricole ma anche quello per la Famiglia e le Disabilità.

L’idea è di prendere una metà dei terreni demaniali agricoli, già individuati dall’Agenzia del Demanio per essere dismessi, e dei terreni abbandonati di cui i Comuni del Sud stanno svolgendo la ricognizione, in base alla legge “Resto al Sud” del governo Gentiloni, e concederli gratuitamente per 20 anni a famiglie che avranno il terzo figlio nel 2019, 2020 e 2021. A queste sarà riservata la priorità nell’accedere al finanziamento per la creazione di nuova imprenditorialità in agricoltura. E agli stessi nuclei familiari sarà concesso anche un mutuo fino a 200 mila euro per la durata di 20 anni, ad un tasso pari a zero, per l’acquisto della prima casa in prossimità del terreno assegnato.

Un analogo programma fu lanciato dal capo del fascismo in un discorso pronunciato il 26 maggio 1927. Ma Mussolini era perfettamente consapevole della difficoltà e disse: “Ruralizzare l’Italia, anche se occorrono miliardi e mezzo secolo”. Si trattava della bonifica integrale: 220 mila ettari da restituire all’agricoltura per iniziativa dell’Opera nazionale combattenti (Onc), sorta in risposta al grido delle trincee: “La terra ai contadini!”.

La bonifica dell’Agro pontino

Nelle paludi pontine si passò da 927 abitanti iniziali a 29.300 nel 1939. Vi si trasferirono 2.953 famiglie friulane, venete, ferraresi e forlivesi. Un’iniziativa certamente meritoria che dette lavoro a mezzo milione di persone per scavare fossi, sistemare terreni e costruire borghi. Ma anche – ahimè – per diboscare. Ci volle tutta l’autorità del capo della Milizia forestale, Agostini, perché non fosse abbattuto quello che è oggi il bosco del Parco nazionale del Circeo: un residuo di 3.270 ettari, su 24.000 di prima.

Qualche anno dopo l’Onc chiese ai coloni se si sentivano pronti a riscattare il fondo in 60 semestralità. Risposero affermativamente solo 471 famiglie. Molti andarono via e furono sostituiti spontaneamente da laziali, campani e marchigiani. L’esito più significativo della bonifica pontina fu la costruzione di Littoria (divenuta poi Latina) nel bel mezzo dell’ex palude. La ruralizzazione propugnata da Mussolini si concludeva così con la creazione di un ennesimo, se pur vitale, agglomerato urbano.

Il mito della colonizzazione del Sud

L’illusione di un Sud da colonizzare era stata coltivata senza successo già in età giolittiana con le agevolazioni per l’immigrazione di famiglie provenienti da diverse regioni in Basilicata. Il fascismo istituì il Commissariato per le migrazioni interne, incaricandolo di “agevolare il flusso migratorio dalle province del regno con popolazione sovrabbondante verso le province meno abitate del Mezzogiorno e delle isole”. Emanò le leggi contro l’urbanesimo che restarono largamente inapplicate. Ma il flusso migratorio dalle campagne verso le città aumentò costantemente fino al 1937, coinvolgendo in quell’anno 1.487.000 italiani: un livello superato solo alla fine degli anni Cinquanta, in pieno sviluppo industriale.

L’idea mussoliniana di ruralizzare l’Italia restò, dunque, un mero atto propagandistico senza conseguenze pratiche. Quella vicenda insegnò che un pezzo di terra e una casa non bastano per costruire vivide comunità-territori e sviluppo economico. Ci vogliono progetti di ampio respiro che creino coesione sociale come premessa dello sviluppo. Vanno promosse motivazioni forti che possano indurre a un cambiamento di mentalità tale da sollecitare gli individui e le comunità a volere lo sviluppo, a procurarsi e a utilizzare i mezzi propri e altrui per attuarlo.

Gli aspetti raccapriccianti della proposta dell’attuale governo

La proposta dell’attuale governo non solo è demagogica perché rilancia il mito del “ritorno alla terra” senza affrontare le moderne problematiche del controesodo urbano e della nuova ruralità: un fenomeno complesso che si è avviato dagli anni Settanta e Ottanta a seguito della crisi ecologica e che richiede una politica territoriale e intersettoriale fortemente intrecciata ad una politica per la ricerca e l’innovazione. Ma il provvedimento presenta aspetti raccapriccianti perché lega, in modo inaccettabile, la crescita demografica alla valorizzazione dei terreni demaniali e di quelli abbandonati: “fate figli e coltivate pomodori” come ha efficacemente sintetizzato “La Stampa”. Terra e famiglia tornano ad essere al centro di una retorica che ieri era fascista e oggi è sovranista, ma che non è molto originale rispetto alle edizioni del passato. Quella odierna contiene anche aspetti bizzarri come l’esclusione discriminatoria delle famiglie che già hanno tre figli, non comprese tra i beneficiari.

Perché l’iniziativa sarà un flop

Per la concessione dei mutui finalizzati ad agevolare l’acquisto della prima casa, sarà istituito al ministero delle Politiche agricole un fondo rotativo con una dotazione finanziaria iniziale pari a 5 milioni di euro per il 2019 e 15 milioni di euro per il 2020. Ma non è possibile fare alcuna previsione delle famiglie che potranno essere coinvolte perché non si conosce la superficie dei terreni disponibili.

I terreni di proprietà del Demanio ammontano ad appena 5.500 ettari. Una dote che in piccola parte è stata già venduta o affittata. Nel progetto “Terre vive” del precedente governo è, infatti, prevista la precedenza a favore dei giovani e già ci sono numerose richieste. Inoltre, va considerato che 2.148 ettari sono in uso al Corpo forestale e non sono, pertanto, disponibili.

Ancora più complicata la situazione dei terreni abbandonati di proprietà dei Comuni e dei privati: qui i dati sono alquanto incerti. La norma della manovra fa infatti riferimento alla “Banca delle terre abbandonate o incolte” prevista dalla legge “Resto al Sud”. Una “Banca” dove dovevano confluire i terreni censiti dai Comuni e individuati come incolti da almeno 10 anni. Ma il monitoraggio non è mai partito. Non è infatti semplice sbrogliare la matassa. Gran parte dei terreni attribuiti ai Comuni meridionali sono in realtà demani civici che vanno utilizzati in base a criteri definiti dalle Regioni e dalle A.S.B.U.C. (Amministrazioni separate per i beni di uso civico) in base alle esigenze delle collettività locali. Mentre i terreni dei privati intrecciano diritti di proprietà e valutazioni sullo stato di abbandono che, laddove mai l’iniziativa andasse in porto, genererebbero il solito caos presso i tribunali.

Come rivitalizzare davvero il Mezzogiorno interno

Per rivitalizzare le zone interne del Sud occorrono percorsi di educazione e formazione all’intraprendere in modo innovativo. Si tratta di produrre un’innovazione sociale che è tutt’uno con il salto tecnologico da compiere. Vanno tenuti insieme digitale, robotica, bioeconomia che si fonda sull’utilizzo multifunzionale di risorse biologiche per la produzione di alimenti, mangimi, energia, ecc. L’agricoltura di precisione è oggi utilizzabile a tutte le altitudini e in tutti i settori. La visione IoT (internet degli oggetti) è applicabile nell’agroalimentare, nel turismo, nell’artigianato, nei servizi socio-sanitari, nell’industria culturale. La rivoluzione tecnologica in atto può aprire davvero una nuova prospettiva allo sviluppo dei territori italiani e alla loro presenza nei mercati internazionali.

Nel settore agricolo, la sfida del digitale è stata raccolta in quelle attività produttive che si svolgono in ambienti “protetti”, come le serre, le stalle, le cantine, gli oleifici, i laboratori di trasformazione, dove è possibile creare condizioni pienamente controllabili. Ben diverso è il caso di quelle attività agricole che si attuano in ambiente aperto e che sono soggette alla variabilità climatica ed alle relative risposte degli elementi territoriali: i versanti, le esposizioni, il suolo con le sue caratteristiche strutturali e di gestione, la struttura orografica, le sistemazioni, etc, che richiedono continui aggiustamenti gestionali per la mutevolezza delle condizioni e la conseguente tempestività operativa. Ma considerando complementari i due nuovi paradigmi dell’agricoltura di precisione e della digitalizzazione e alta tecnologia, anche per questo tipo di attività agricole si possono avere risultati concreti. C’è bisogno di creare una interferenza di territorio fra agricoltura, servizi, sistema educativo e della ricerca.

Ci vogliono politiche del tutto opposte a quelle che vengono indicate oggi dal governo gialloverde, ispirate ad un rozzo protezionismo e ad una visione diffidente verso l’innovazione tecnologica e la conoscenza scientifica. L’agricoltura italiana non ha solo bisogno dei droni del ministro Salvini e delle forze di polizia per prevenire i crimini nelle campagne. Anche quelli sono utili, non c’è dubbio. Ma ancor più al settore primario necessitano imprenditori agricoli capaci di pilotare, essi, i droni per misurare le caratteristiche, le potenzialità e le difficoltà delle proprie aziende. E necessitano istituzioni capaci di trasformare una forte domanda scientifica di ricerca in infrastrutture tecnologiche, opportunità professionali e lavori innovativi. Se c’è tutto questo ha senso valorizzare a fini agricoli terreni demaniali inutilizzati e terreni privati abbandonati.

In apertura, dipinto di Andrew Wyeth

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