Saperi

Un po’ di storia di alcuni formati di pasta e le responsabilità della politica agricola fascista

Tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento vengono depositate, presso il ministero dell'Agricoltura Industria e Commercio, molte richieste di brevetto relative a macchinari per la produzione industriale delle paste secche. Questi brevetti oggi sono conservati presso l'Archivio centrale dello Stato. È il momento nel quale si moltiplicano le trafile, permettendo la confezione di paste dal formato fantasioso

Alfonso Pascale

Un po’ di storia di alcuni formati di pasta e le responsabilità della politica agricola fascista

Servirsi della trafila significa produrre un numero infinito di paste, il cui formato era tutt’altro che indifferente ai fini della soddisfazione organolettica. Commenta, in questo senso, Cesare Marchi, sottolineando l’importanza dei vari formati: “provate a bere uno spumante prima in un calice di cristallo e poi in una tazza di caffé…”. Ma lo stesso autore ci offre anche un’altra considerazione legata alla proliferazione industriale delle paste: “come possiamo meravigliarci delle molte correnti che frazionano un partito politico se dal medesimo impasto di uova e farina escono tanti figli differenti?”.

Un gruppo di formati di pasta – gli assabesi, i bengasini, gli abissini, i tripolini – deve il nome al fatto di essere stati messi in produzione al tempo delle imprese commerciali e belliche italiane in terra d’Africa.

Gli assabesi fanno certamente riferimento all’importante avvenimento commerciale dell’acquisto della Baia di Assab sul Mar Rosso, da parte della società genovese Rubattino nel 1869.

I vari formati non sono collegati fra di loro in alcun modo: gli assabesi hanno la forma di un piccolo cilindro ornato da volant, i bengasini quella di una piccola farfalla, gli abissini quella di una conchiglietta e i tripolini di un minuscolo cappello o di una stetta tagliatella frastagliata su un lato, e in questo formato sono spesso commercializzati a matassa.

Questi nomi non si riferiscono sempre allo stesso formato di pasta: qualche volta fanno riferimento alla forma dei copricapo africani, talaltra agli anelli che le donne di Bengasi portano alle orecchie, anche se più spesso i termini vengono assegnati senza precisi riferimenti.

La produzione di un’ampia gamma di formati è una dei motivi dell’incremento del consumo di pasta in quel periodo. Oltre ai formati, concorre in tale incremento anche una ricca scelta di “paste speciali”, che vanno dalle paste all’uovo alle paste dietetiche, se non decisamente “medicinali”. La gamma delle paste “naturali”, vale a dire quelle che non integrano nell’impasto base altro che semola o farina e acqua, si suddivide in diverse categorie, a seconda che la pasta sia di pura semola, di un misto di semola e farina o di sola farina.

La produzione industriale della pasta si diffonde sia in Europa che in America. La valorizzazione del prodotto passa attraverso una chiara definizione delle sue proprietà e delle sue denominazioni. Sono gli americani ad aprire la strada. Il Federal Food, Drung and Cosmetics Act – una sorta di legge fondamentale sulle derrate alimentari, sulle bevande, le medicine, le droghe, ecc. – è infatti il primo testo che tracci un quadro della produzione e della vendita delle paste alimentari. Al di là della volontà manifesta di evitare ogni sorta di imbroglio e di frode, il governo americano dimostra la ferma intenzione di fissare regole chiare e delimitare il campo della fabbricazione, ovvero di fornire alle paste un documento di identità di modo che ognuno, fabbricanti e consumatori, sappia esattamente di cosa si tratti.

Nel corso degli anni Trenta, i principali paesi produttori europei pubblicano misure regolamentari analoghe. L’Italia è il primo paese a seguire le orme degli Stati Uniti. Nel 1933, viene promulgata una legge che disciplina la produzione e la vendita della pasta. Fino a quel momento era in vigore la sola “Tutela dell’Igiene e della Sanità Pubblica”, stabilita da una legge del 1888 e riguardante solo le condizioni sanitarie di cereali e farine. La legge del 1933 deriva dalla necessità, non solo di definire la natura del prodotto, ma anche di migliorare l’immagine di marca della pasta italiana nel momento in cui essa perde terreno sul mercato internazionale e soprattutto negli Stati Uniti. Il governo fascista aveva imposto in quegli anni una politica di restrizione sulle importazioni di grano duro e così aveva costretto i fabbricanti italiani a far ricorso agli sfarinati misti, con un abbassamento notevole della qualità del prodotto trasformato.

La “battaglia del grano”, condotta a tambur battente dal regime, non aveva messo il paese al riparo di una penuria cerealicola endemica. E, malgrado l’estensione delle colture di grano duro in Puglia, l’industria italiana mancava sempre e comunque di materia prima di buona qualità.

Se proprio interessa approfondire alcuni aspetti della politica agroalimentare fascista riguardo alla pasta, non è da prendere in considerazione l’origine del nome di alcuni formati che risale – come abbiamo visto – ad un periodo precedente. Piuttosto, va affrontato il tema della politica autarchica e protezionista. Nonostante gli enormi successi conseguiti dal genetista Nazareno Strampelli nella realizzazione di decine di varietà differenti di frumento con caratteristiche di elevata produttività, quella politica agricola del regime procurò un danno enorme all’economia italiana, soprattutto nell’ambito della produzione della pasta.

In apertura, poster della Ditta Andrea Pittaluga, Premiata semoleria e pastificio, foto del Museo Nazionale delle Paste Alimentari di Roma ©

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