Saperi

Visita alla vecchia Signora

IL RACCONTO. Un fratello e una sorella, una villotta a due piani, di stile incerto e difficilmente definibile, dall’aspetto un po’ tetro. Una casa che poteva essere esistita da sempre e dove Rosa, l’anziana governante, vigilava con estrema delicatezza, riserbo e sollecitudine. Una vecchia auto, una 1400 nera, che fungeva da seconda casa. E poi la cugina Dalia, le amiche, gli amici, tante storie, intrecci, legami

Mariapia Frigerio

Visita alla vecchia Signora

La vecchia signora abitava, sola, nella Palazzina di Caccia, in fondo al viale.

Mio fratello ed io andavamo in visita da lei, la sera, ogni volta che i nostri impegni ce ne lasciavano il tempo necessario. E, in verità, questo avveniva con una certa frequenza, dal momento che all’epoca eravamo studenti e non certo dei più assidui.

La nostra casa, o meglio, la casa dei nostri genitori, era una villotta a due piani, piuttosto vecchia, di stile incerto e difficilmente definibile, dall’aspetto un po’ tetro, ma nella quale noi vivevamo la nostra vita tranquilla con molta soddisfazione. Raramente infatti ce ne allontanavamo: il nostro mondo era tutto lì dentro.

Quando varcavamo il cancello, poi la soglia e richiudevamo la porta, lasciandoci alle spalle il piccolo giardino, ci sentivamo accarezzare dal tepore del suo alito e ritrovavamo certezze che, fuori da quelle mura, ci sarebbero parse irrimediabilmente perdute. Era, alla fine, la nostra casa.

Nostro padre, infatti, viveva, per i suoi studi, lunghi periodi lontano e nostra madre per nessuna ragione al mondo si sarebbe separata da lui.

Ci eravamo abituati così, fin dagli anni dell’adolescenza, a vivere soli, insieme.

Solo Rosa, l’anziana governante, vigilava su di noi con estrema delicatezza, senza invadere i nostri spazi, accudendoci con riserbo e sollecitudine a un tempo.

Gastone ed io amavamo molto leggere, anche se non sempre i nostri amori letterari coincidevano, e amavamo molto il cinema.

Eravamo capaci di uscire da una proiezione e immediatamente infilarci in un’altra sala per seguire un nuovo film. E questo avveniva non solo nei piovosi pomeriggi invernali, ma anche quando la stagione si faceva più clemente.

Del resto né mio fratello né io amavamo molto l’aria aperta: gli spazi interni erano più consoni al nostro spirito.

Così frequentavamo indistintamente le sale cinematografiche, le stanze della nostra casa, la Palazzina della vecchia signora.

E per questo il nostro modo di vivere era guardato con diffidenza da molti dei nostri coetanei, salvo quei pochi che avevano libero accesso da noi.

Ma né Gastone né io ci preoccupavamo minimamente della nostra diversità, né questa ci impediva di continuare a vivere, con somma beatitudine, la nostra vita tranquilla.

A dire il vero anche noi, a modo nostro, amavamo vivere all’aperto, anche se per noi “aperto” voleva dire levare la nostra vecchia auto (una 1400 nera) dal garage e, dopo esserci allontanati dalla città, avviarci lungo il viale che portava alla Palazzina di Caccia della nostra amica.

La nostra auto era, per certi aspetti, una seconda casa. Vi tenevamo una scatola di dragées sotto il sedile che sgranocchiavamo con soddisfazione durante i nostri tragitti più lunghi. E parlavamo. Quanto parlavamo!

Se ripenso oggi – che tante cose sono cambiate – a quei tempi, mi sembra impossibile che due persone come noi, che vivevano sempre insieme, che dividevano quasi ogni istante della loro vita, potessero trovare continui argomenti!

Eppure, a volte, esistevano delle tregue alle nostre conversazioni, ed era quando io mi innamoravo.

Allora, per qualche tempo, io vivevo tutta presa dalla mia storia e Gastone diventava, nella mia giornata, solo una comparsa.

Lui, però, non se ne aveva a male: ero sua sorella e gli andavo bene così com’ero, con i miei entusiasmi improvvisi e le mie altrettanto improvvise depressioni. Ma soprattutto sapeva che i miei erano sempre amori di breve durata e io, comunque, sarei tornata da lui.

. . .

La cugina Dalia entrava nella nostra casa come un turbine, quasi con strafottenza. Consegnava il suo bagaglio a Rosa e iniziava la litania delle critiche a Gastone e a me.

Diceva che mio fratello era troppo pigro e che io avrei dovuto indulgere maggiormente ai richiami della moda.

«Eufemia, fammi vedere i tuoi nuovi acquisti» diceva col suo tono imperativo. E quando io, timidamente, le rispondevo che in verità non avevo nulla di nuovo da mostrarle, andava su tutte le furie.

Poi, con fare suadente e col suo furbo sorriso di gatto, diceva a Gastone:

«È vero che ora leverai quel reperto archeologico dal garage e ci porterai in giro e a far spese?».

Mio fratello non sapeva né avrebbe voluto dirle di no: Dalia era troppo importante per lui così come lo era per me.

Portava nella nostra vita non so quale brio ed era per noi una specie di linfa rivitalizzante.

Nei giorni in cui stava da noi (e purtroppo erano pochi e poche volte l’anno e la sua città un’altra dalla nostra) sconvolgeva la nostra vita, i nostri ritmi lenti e monotoni, ma noi ne eravamo comunque molto felici.

La sera, poi, quando Rosa ci serviva la cena intorno alla tavola, nella vecchia sala da pranzo, le nostre risate risuonavano per tutta la casa, perché con Dalia riuscivamo a tirar fuori quella parte di noi, più giovane, più allegra che, nella nostra abituale convivenza, restava in gran parte sopita. E la stessa Rosa, tra una portata e l’altra, non poteva fare a meno di sedersi e ridere, visto che nostra cugina le imponeva di fermarsi con noi.

. . .

Eufemia conobbe Gilberto alla festa della sua amica ***, dove si era recata scortata dal fedele Orazio, uomo affascinante e dall’amabile conversazione, che non lasciava minimamente trapelare la sua omosessualità, così come la mascherava molto bene il bellissimo Ario che si era unito a loro.

Entrambi si accorsero immediatamente degli sguardi che Gilberto lanciava verso la loro amica e, siccome consideravano Eufemia la “loro”amica, ne provarono subito un’istintiva antipatia.

Iniziarono quindi tutta una serie di critiche e di prese in giro: lo chiamarono bellimbusto, Rosso Malpelo (per il colore dei capelli), damerino. E a ogni tentativo che costui faceva per avvicinarsi a loro o meglio a Eufemia, Orazio e Ario si stringevano a lei e la ricoprivano di attenzioni e di affettuosità. Del resto la stessa Eufemia non nascondeva di partecipare ai loro scherni né di gioire nel sentirsi di loro proprietà. Le era sempre piaciuto essere corteggiata, essere al centro dell’attenzione e – soprattutto – non le piaceva scegliere.

Se l’affermazione non risultasse un po’ ambigua, si potrebbe dire che un uomo non le bastava. In effetti quando provava un interesse per qualcuno c’era sempre l’amico più caro di questo qualcuno che in breve tempo lo soppiantava nel suo cuore e questa situazione faceva sì che lei restasse così unicamente fedele a suo fratello Gastone.

Qualche tempo dopo, Eufemia ritrovò Gilberto a casa della solita amica *** e non poté non pensare che un qualche legame esistesse tra i due. Con la spontaneità che la contraddistingueva non si fece scrupolo a chiederlo all’amica. «È semplicemente un compagno di studi». Fecero tardi scherzando tutti e tre e senza rendersi conto che si era, nel frattempo, fatta l’ora di cena.

«Dio mio! Gastone e Rosa saranno in pensiero per me!».

«Non ho problemi ad accompagnarti»si offerse subito Gilberto.

Nel tragitto in auto verso la casa di lei il ragazzo non fece che parlarle di tutti i suoi problemi e delle sue infelicità: amori finiti male, relazioni anche squallide, paura del futuro e, non da ultimo, il fatto di essere ebreo.

Eufemia faticava a capire. Pensava che gli amori finiscono quasi sempre male, ma che, comunque, si sopravvive. Riguardo al futuro, poi, la sua visione era del tutto ottimista. Credeva in quello che faceva, nei suoi studi, nelle sue passioni e questo le bastava per immaginare solo avvenimenti lieti nella sua vita. Men che meno pensava che l’essere ebreo fosse qualcosa che potesse turbare.

Era cresciuta con una mentalità molto aperta e molto libera che le veniva da due genitori presenti pur essendo per lo più assenti e da una situazione di vita particolare, con un fratello amoroso e pacato e con la presenza costante di Rosa, efficiente e rassicurante.

L’auto di Gilberto si fermò davanti al cancello del giardino. Il ragazzo vedendo la magnolia che nascondeva in parte la vecchia casa commentò: «Un costo mantenere un giardino con piante di questo genere!». Eufemia non seppe cosa rispondere. Pensò solo al vecchio Giuseppe che di tanto in tanto, sollecitato da Rosa, veniva, come gli si richiedeva, «a dare uno sguardo».

L’esclamazione del ragazzo fu così immediatamente dimenticata, lasciando libera Eufemia di invitarlo per un pranzo da lei. «Quando vuoi» aggiunse «così ti farò conoscere mio fratello». Si lasciarono con l’accordo che il martedì successivo sarebbe venuto a mangiare da loro.

Rientrando in casa si accorse di aver messo in agitazione sia il fratello sia la governante. «Sai che ci basta una telefonata!», dissero all’unisono. Lei si scusò, poi si sedette a tavola. «E allora, cos’hai da dirmi?», le chiese sorridendo Gastone.

«Sono stata da ***. Ho ritrovato Gilberto, sai, quello della festa. Abbiamo fatto tardi e mi ha voluto riaccompagnare. Mi sembra un ragazzo molto triste. Un piacevole conversatore, un bel ragazzo ma, per certi aspetti, già vecchio. Sì, come se un’atavica tristezza lo possedesse al punto tale da mutargli l’età anagrafica. L’ho comunque invitato qui a pranzo da noi martedì, così lo conoscerai».

«Non è che ti lascerai di nuovo prendere dalla sindrome dell’io ti salverò?».

«No, non credo. Sono troppo affascinata da Orazio. Una risata con lui, un suo abbraccio mi danno delle sensazioni uniche. Gilberto, qualunque dote possieda o possa rivelare, resterebbe comunque un uomo qualsiasi, un uomo comune per me».

«Ah, certo Orazio è “diverso”in tutti i sensi!».

«Non ti credevo, sai, così banale e conformista, Gastone».

«Ma figurati se sono conformista! Semplicemente ti conosco e so che non ti smentisci. Tu un uomo normale non lo vorrai mai».

«È così nei fatti, non nelle intenzioni. È più forte di me, cosa ci posso fare?».

Rosa interruppe la conversazione dei due fratelli avvertendo che c’era una certa Mariagrazia al telefono che chiedeva di Gastone. «Chi è?» non poté fare a meno di chiedere Eufemia. «Una compagna del mio corso di economia»rispose Gastone e lasciò la sorella per raggiungere il telefono.

Eufemia lo guardò percorrere il lungo corridoio che divideva la sala da pranzo dallo studio e, quasi contemporaneamente, pensò sia a suo fratello che alla loro casa. Sapeva che Gastone era un ragazzo raffinato, di una naturale eleganza, colto, ma soprattutto di grande sensibilità. Una sensibilità che lei aveva ricercato – inutilmente – anche in altri ragazzi. E sapeva che la loro casa gli corrispondeva particolarmente, di certo più di quanto non corrispondesse a lei. Una casa calda, con mobili vecchi, seppur non di pregio. Una casa con una disposizione particolare, con stanze inutili e collocate in modo illogico. Una casa che, comunque, poteva essere esistita da sempre, che concretizzava l’idea stessa di casa. Insomma, la casa per eccellenza.

Di questo Eufemia era sicura. E la sua sicurezza le derivava dal fatto di averla confrontata più volte, nella sua mente, con quelle dei loro amici che lei reputava case belle, ma, fondamentalmente, finte.

La loro, invece, era sicuramente una casa vera.

Gastone rientrò nella sala da pranzo dove, nel frattempo, Rosa aveva portato il caffè.

«E allora, cos’hai da dirmi?», disse Eufemia facendo il verso al fratello. Non era in verità solo fare il verso, era che i due fratelli si scambiavano sempre, anche sulle più piccole cose, le loro opinioni.

«Era quella mia compagna di studi di cui ti avevo detto. La conosco poco, ma nelle ultime lezioni a cui abbiamo assistito, lei più volte mi ha chiesto dei chiarimenti. Ora ne aveva bisogno di un altro più complesso per risolverlo in piedi nello spostamento tra un’aula e l’altra. Così le ho proposto di venire a studiare qui nel pomeriggio».

La sorella pensò che, a differenza sua, raramente Gastone faceva entrare in casa amici suoi. Sì, c’erano Gianguido e Francesco. Ma tutto finiva lì. Ragazze rarissimamente. Gli amici che entravano in casa erano per lo più amici di Eufemia. Orazio, l’architetto; Ario, il pittore di oniriche bamboline; Oscar, l’ex compagno di liceo e ora suo fedele accompagnatore nelle loro serate a teatro. Poi c’era Margherita. Anche Margherita era stata sua compagna di liceo come Oscar, ma ora condividevano anche gli studi universitari. Studiavano lettere, storia dell’arte in particolare. Margherita era, più degli altri, di casa. Quasi ogni mattina e quasi tutti i pomeriggi infatti veniva a studiare con Eufemia, ma era altrettanto intima di Gastone.

Suonava il campanello in modo deciso e prolungato, quasi fastidioso. Quel suono così impositivo era l’opposto di lei: una figurina dolce e garbata, sorridente, con un volto da miniatura.

Suonava, le veniva aperto e, dopo aver richiuso il portone alle sue spalle:

«Fimì, sono arrivata»diceva. Entrava, lasciava le sue cose – cappotto o altro – sulla panca dell’ingresso, poi saliva le scale con finta fatica, recitando il suo ansimare punf punf punf, ma prima di raggiungere l’amica nella sua stanza passava dalla camera di Gastone con il quale rideva sempre prendendolo in giro. Non tralasciava poi mai di aggiungere, nel congedarsi da lui, «Se non avessi Arturo, penserei a te come marito!». Gastone le rispondeva di esserne lusingato.

Arturo era il suo fidanzato fin dai tempi del liceo. Un musone selvatico e un po’ rozzo. Un uomo scostante. Ad Eufemia non piaceva, ma capiva che la sua amica aveva bisogno di un uomo fisso al fianco e non sarebbe sopravvissuta nella giostra di uomini di cui invece lei amava circondarsi. Tuttavia, o forse proprio per le loro differenze, Eufemia e Margherita erano molto amiche.

Quel giorno però Margherita non sarebbe venuta. Arturo le aveva imposto di andare con lui chissà dove e la ragazza era molto remissiva ai voleri del fidanzato. Eufemia o Fimì, come la chiamava la sua amica, sarebbe rimasta sola. La cosa non l’avrebbe turbata affatto in una situazione normale: si sarebbe rinchiusa nella sua stanza a studiare o a leggere o a riordinare il grande scrittoio o a sognare. E avrebbe saputo di avere, nella stanza accanto, la confortante presenza di Gastone. L’idea, però, di quella visita, la presenza di quella sconosciuta Mariagrazia le creava un certo turbamento. Il fatto poi che il nome non le piacesse le dava modo – assurdo, per amor del cielo! – di pensare che neppure la persona le sarebbe piaciuta. Così decise di andare a trovare la vecchia amica nella Palazzina di Caccia. Ne informò Gastone che comprendendo che quella della sorella altro non era che una fuga per l’arrivo della sconosciuta, ne rimase un poco rattristato. Ma non ne fece cenno alcuno e, prontamente, le consegnò le chiavi dell’auto con la sola raccomandazione che non finisse tutti i dragées. Lo disse con fare bonario come se volesse, in quel modo un po’ curioso, far sentire che non l’abbandonava e che, in ogni caso, le loro abitudini e i loro riti restavano solo loro.

La strana, inaspettata e insospettata, inquietudine di Eufemia continuava ad aumentare, tanto che la ragazza pensò di chiedere a Rosa di tenerle compagnia. La donna accettò immediatamente la proposta e, presa la sua rigida borsetta a due manici che indistintamente usava in estate e in inverno, si sedette nell’auto accanto al posto di guida.

Il viale che portava da Torino alla Palazzina di Caccia di Stupinigi era ricoperto da un tappeto di foglie secche che frusciavano al passare dell’auto nera. Altre, nel frattempo, ne cadevano e andavano a posarsi, oltre che sul selciato, anche sul parabrezza.

Eufemia non poté non pensare a quelle «foglie rosseggianti a varie tinte»che accompagnano, col «cielo tutto sereno», il cammino di fra Cristoforo dal suo convento di Pescarenico alla casa di Lucia e a quanta fatica le fosse costato imparare quel passo a memoria. Ma ora no, ora era contenta che la sua maestra l’avesse costretta, bambina, a quella fatica improba, ora che sovente le capitava di ripetersi nella mente quelle parole. E a questo pensiero si aggiungeva quello della bellezza dell’autunno nella città dai grandi viali alberati, dalle costruzioni severe e un po’ tetre che tanto Gastone e lei amavano.

Avrebbe voluto condividere con Rosa questi pensieri lieti, ma l’inquietudine e il malessere che sempre più s’impossessavano di lei non glielo permisero. Non vide l’ora di essere dalla vecchia amica. Con lei, sicuramente, si sarebbe aperta.

La statua del cervo – che troneggiava in cima alla facciata – si avvicinava ingrandendosi: era il segno inconfondibile che stavano per arrivare. Eufemia superò la catena che impediva l’accesso al pubblico in visita e posteggiò l’auto, come sempre, sul lato sinistro della Palazzina. Scese con Rosa e spinse il vecchio cancello di ferro che dava sul parco. Da lì avrebbe aperto una piccola porta che si affacciava su un andito con scale a chiocciola coperte da suggestive, anche se un po’ inquietanti, volte a crociera che portavano agli appartamenti che un tempo erano stati di coloro che vivevano ai margini della corte e ora, di proprietà di un grande ospedale della città, erano dati come abitazioni alle famiglie dei dirigenti più importanti.

Blanche Lestournelle era stata la moglie di uno di questi, la moglie dell’avvocato Antoine, ex amministratore dell’ospedale e, da quando lui era partito (perché mai di morte, ma solo di partenza lei aveva sempre parlato ai due fratelli) era rimasta lei sola ad occupare le antiche stanze che, dando l’una nell’altra, si richiudevano a cerchio nel punto in cui c’era l’ingresso e nel quale tra poco la vecchia amica avrebbe aperto loro.

Mentre salivano le scale di pietra, Eufemia non poté fare a meno di ripensare a come l’avesse conosciuta.

Era stato una sera, mentre era a teatro con Oscar. L’avevano vista nel ridotto durante l’intervallo e avevano iniziato a fantasticare su chi potesse essere quella curiosa figura di donna senza età (sessanta? sessantacinque? settanta?), elegante di un’eleganza molto personale e un po’ osé (come dimenticarsi quelle calze nere, velate, con piccoli pois in rilievo?!), con una pettinatura che era decisamente fuori dal tempo – almeno dal loro di tempo – con capelli ramati, divisi in due bande da una scriminatura centrale e raccolti sulla nuca, con un lungo, aristocratico naso aquilino in mezzo ad un viso magro e con una bocca dalle labbra sottili sempre pronta al sorriso con chiunque le rivolgesse la parola. E quel distinto signore con lei, dall’aria un po’ ammuffita, chi era? Sempre lì al suo fianco, in silenzio.

La signora rimase così oggetto delle fantasticherie dei due amici e a queste, pur senza averla mai vista, ma accontentandosi delle loro descrizioni, si era unito presto anche Gastone.

Oscar ed Eufemia l’avevano in seguito incontrata altre volte, sempre a teatro. E sempre col distinto signore. I due amici si erano accorti poi, che, a ben guardare, l’uomo doveva essere decisamente più giovane della donna, ma ugualmente aveva addosso un non so che di vecchio che non apparteneva invece alla loro amica.

Fu poi a un matinée che Eufemia – sempre con l’inseparabile Oscar – vide realizzarsi il suo desiderio: conoscere la strana signora. E questo avvenne perché Blanche, essendo di domenica pomeriggio, si era recata a teatro da sola.

Era, quello, un giorno importante per Torino e per gli appassionati del teatro di prosa, perché in quel giorno sarebbe stato presente alla rappresentazione di Il re muore lo stesso autore. Così, quando i due amici si recarono alla biglietteria, furono fermati dalla voce squillante di Blanche che, come se li avesse conosciuti da sempre, disse loro: «È appena passato Eugene!».

C’era nella voce della donna un entusiasmo che raramente i due amici avevano riscontrato in persone della sua età. Eufemia prese la palla al balzo. «Proprio Ionesco? E dove è andato?».

«Verso i camerini degli attori».

«Mi sbaglio, signora, o oggi è sola?»chiese Eufemia felice e curiosa a un tempo.

«Sì, proprio sola. La domenica mio figlio sta in famiglia e agli spettacoli di pomeriggio vengo per conto mio, con la mia auto. Di solito gli spettacoli finiscono prima che venga buio e quindi non ho problemi di guida. Ma, ragazzi, ora vorrei sapere di voi, perché è raro trovare dei giovani così assidui alle rappresentazioni teatrali. Se sapeste da quanto tempo vi avrei voluto fermare, ma con mio figlio alfianco non mi è mai stato possibile. Non solo non me lo ha mai permesso, ma, addirittura, me lo ha proibito. Lui pensa che, nonostante la mia veneranda età, io debba ancora essere educata. Beh, lui è di certo più conformista di me!».

Così quella volta non era stata Eufemia a fare il primo passo, ma una vecchia signora era stata più pronta di lei.

Erano entrati poi insieme, tutti e tre, in platea e, allo spegnersi delle luci, vicini, nelle loro poltroncine di velluto rosso, avevano condiviso l’emozione di intravedere il viso tondo e lucido di Ionesco nell’ombra di un palchetto laterale.

A fine spettacolo Oscar ed Eufemia avevano accompagnato la signora, anzi Blanche come subito aveva voluto che li chiamasse, alla sua auto.

«Un’auto degna di lei»si erano poi confessati, reciprocamente, i due amici, una 600 blu con cuscini bordati di nappe sul sedile posteriore, una specie, insomma, di carrozza con motore.

«Verresti, Blanche, una sera a cena da me e da mio fratello? Con Oscar gli ho parlato tanto di te. E, naturalmente, ti verremmo a prendere».

«Certo, cara, ne sarò felice! Sai, ho tre nipoti, ma li vedo pochissimo. Sarò felice di stare con degli altri giovani».

Non molto tempo dopo, Blanche giunse accompagnata da Gastone – che premuroso come sempre era andato fino alla Palazzina di Caccia a prendere la nuova e per lui ancora sconosciuta amica – alla villotta dove Eufemia stava finendo i preparativi con l’aiuto di Rosa.

L’ingresso di Blanche nella casa fu all’insegna dell’entusiasmo. Come era felice quella vecchia, aristocratica signora della compagnia dei due fratelli. Di due giovani a cui se ne aggiunse presto un terzo, Oscar pure lui invitato per la cena.

Fu, quello di Blanche, tutto un chiedere, tutto un voler sapere, tutto un voler conoscere.

I tre ragazzi furono felici di rispondere e di partecipare a quell’euforica curiosità per poi, a loro volta, far domande.

Seppero così che Lestournelle era il cognome del suo secondo marito, quello che lei definì “il suo vero amore”.

«Mio figlio Saverio è figlio del mio primo, il conte Amedeo De Resiet. E ancora oggi, che ha i suoi anni e tre figli su per giù della vostra età, non mi perdona il tradimento. D’altronde, ragazzi, la giovinezza – e la natura soprattutto – giocano brutti scherzi e così una fa quello che non dovrebbe o che almeno, ai tempi miei, era molto disdicevole fare. Oggi, si sa, negli anni Settanta è tutto diverso… lo vedo con i miei nipoti… vacanze in libertà, ragazzi e ragazze insieme. Ma quando ero giovane io ritrovarsi incinta era un vero scandalo… l’unica via d’uscita era che il giovanotto in questione riparasse il “danno”sposandoti. Fu quello che fece Amedeo che era un vero gentiluomo e gentiluomo fu sempre, ma non adatto a una ragazza esuberante quale io ero. Troppo buono e… troppo calmo!».

«Ma allora, Blanche, il tuo fu quello che si chiama un matrimonio riparatore!»la interruppe Eufemia.

«Proprio non riesci a stare zitta!»intervenne con una vena di fastidio Gastone.

«Non la zittire: tua sorella ha ragione, sai? Se penso quanto soffersi in quegli anni… il piccolo Saverio, un marito troppo vecchio (e pensate che aveva solo quattro anni più di me!), poi quella odiosa mondanità così… così formale e pacata. Mai un guizzo, mai una fantasia… Ma la guerra, atroce per tanti versi… per ogni verso a dire il vero, fu risolutiva per la mia vita».

«La guerra?» ripeté Oscar

«E sì, proprio la guerra, perché la mia triste famigliola (ma non vi sembra un po’ triste ancor oggi quel mio figlio?) dovette sfollare nel castello di San Sebastiano Po, da conti amici di Amedeo. Una noia questi nobili! I gioielli da nascondere… oh, che follia!… metterli in una specie di scrigno e poi sotterrarli vicino a un determinato albero… Che inutilità! Che mancanza di vita! Eppure tutte le madame del gruppo sfollato nel castello avevano quello come unico pensiero…».

«Chissà tu, Blanche!» intervenne Eufemia.

«E sì, io mi sentivo spegnere ogni giorno di più. Poi… poi la sorte mi ritornò amica quando… quando mi slogai una caviglia! Sì, proprio così. Tramite le solite conoscenze altolocate fui portata per una lastra in ospedale a Torino».

I tre ragazzi seguivano incantati: la vecchia amica era immersa in un mondo a loro ignoto e, forse, proprio perché così diverso e lontano, affascinante.

«E qui entrò in scena e non ne uscì più – anche dopo essere partito per sempre – il mio Antoine. Fu amore… sì, sì fu amore a prima vista. Lui, come amministratore dell’ospedale dovette farmi delle domande… non dimenticatevi, ragazzi, che ero una raccomandata! Ma le sue domande non furono solo quelle di un pubblico ufficiale… la prese alla larga… questo sì, ma… fatto sta che nonostante la mia rapida dimissione (venni infatti dimessa il giorno stesso), tornando con Renato – l’autista dei conti di S. Sebastiano Po – al castello io ebbi la certezza che ci saremmo rivisti. Vi dirò di più… dopo non più di dieci giorni da quell’incontro le nostre vite si unirono per non separarsi più».

«Vi sposaste subito?».

«Ma, Eufemia, ragiona!»non poté fare a meno di dire Gastone.

«Dio, che stupida sono! Non avevo pensato…».

«Naturalmente all’inizio»riprese Blanche «la nostra fu una relazione clandestina, come usava in quel periodo. Non si parlava a quel tempo con la facilità di oggi di separazione e men che meno di divorzio… Io spero proprio, per voi giovani, che non venga abrogata la legge sul divorzio e poi… poi quel Marco Giacinto Pannella mi è proprio simpatico… comunque, vi dicevo, la nostra fu all’inizio una relazione clandestina… non so se Amedeo avesse intuito qualcosa, ma era in ogni caso così mite!

«Chi sicuramente capì fu Saverio: lui sì che non lo poteva proprio vedere Antoine. Quando, a fine guerra, rientrammo in città ebbi alcuni momenti di timore che il ragazzino rivelasse la sua intuizione.

«Nel frattempo Amedeo si ammalò. Restai vedova dall’oggi al domani. Non lo avevo mai amato, ma ugualmente mi mancò, all’inizio, la sua tacita presenza… Povero caro! Poi la vita e Antoine mi ripresero e io mi risposai. Quanto ci amammo! Saverio, ovviamente, visse con noi, ma per quanto Antoine fosse tenerissimo con lui (probabilmente per l’amore che aveva per me), mio figlio lo tenne sempre a distanza e mai mi perdonò il tradimento, anche se solo intuito. Ma rimane tuttavia un figlio devoto e da quando sono rimasta nuovamente vedova lui si è preso l’incarico, nonostante moglie e figli, di accompagnarmi a teatro una volta ogni quindici giorni.

«Ecco! Credo di avere risposto alle vostre domande. Sì, a grandi grandissime linee penso di avervi detto tutto».

È facile capire che per i due fratelli quella persona così aperta, così anticonformista, ma soprattutto così piena di passioni ancora alla sua età sarebbe presto diventata l’amica per eccellenza. Per Eufemia perché trovava in lei una donna da ammirare e con cui condividere le confidenze sui suoi amori ed Eufemia, come sovente il fratello le faceva notare, amava parlare e non aveva reticenze di alcun tipo. Ma anche per Gastone, più riservato e pacato rispetto alla sorella, Blanche rappresentò presto un punto di riferimento ineludibile.

Eufemia suonò il vecchio campanello d’ottone. Si sentirono all’interno piccoli passi avvicinarsi alla porta. Quando Blanche aprì, Eufemia le si buttò tra le braccia e, senza neppure salutarla, le bisbigliò all’orecchio: «Si chiama Mariagrazia».

«Nomina sunt consequentia rerum» le rispose con prontezza e capendo, quello che lei solo avrebbe potuto capire, la vecchia amica.

Eufemia sposò Gilberto in settembre. Erano trascorsi solo sei mesi dal giorno in cui l’aveva conosciuto.

. . .

«Pronto…, Gastone sei tu? Scusa se ti disturbo al lavoro…».

«Ma come puoi pensare di disturbarmi!».

«È che…».

«Cosa c’è, Eufemia? Qualcosa non va?».

«Qualcosa? Veramente non va niente… proprio niente… Vorrei tanto incontrarti…».

«Sì, certo… devo solo vedere come metterla con Mariagrazia».

«Come“metterla”? Cosa vuoi dire?».

«Sai, non te l’ho mai detto, ma mia moglie è molto gelosa di te. Dice che il nostro è un rapporto anomalo».

«Se è per questo Gilberto ha parlato pure di incesto! L’ho odiato, in quel momento… Lo ho odiato talmente che, mentre dormiva, ho preso uno di quei coltellacci appuntiti da arrosto e gliel’ho messo alla gola.

“Sei pazza”,urlava, “sei una pazza, siete una famiglia di pazzi. Tuo padre con i suoi studi, tua madre come un bel cane fedele sempre con lui… Tu e tuo fratello… due imbecilli cresciuti con quella grassona ignorante di Rosa… neanche fosse una nanny! Poi i vostri amici, i tuoi omosessuali, quella cretina di Margherita, per non dire di quella vecchiaccia della Palazzina!”.

«Avresti dovuto vedere, Gastone, come gli si ingrossavano le vene del collo! E che occhi pieni di terrore! No… no, non dubitare, non ero impazzita, ero semplicemente esaltata all’idea di spaventarlo… avrei voluto spaventarlo a morte, quello stronzo».

«Ecco il turpiloquio che ti rigenera… Per il resto mi lasci sconvolto, anche se…».

«Anche se…».

«Anche se mi sono sempre chiesto il perché di quel tuo matrimonio così affrettato. Non ancora laureata, poi! E ti mancava così poco… E non mi ripetere per l’ennesima volta che ne eri innamorata, Eufemia! Ti conosco troppo bene. La tua scelta è stata una scelta dettata dalla sindrome».

«Che sindrome?».

«Ma la sindrome dell’io ti salverò!».

«Sì, la sindrome…forse hai ragione. Mi sembrava così sofferente, così pieno di problemi… Pensavo veramente di poterlo aiutare. Però alla sindrome si è unito un altro fattore che ha pesato molto sulla mia decisione e che non ho mai voluto dirti».

«Non credi che ora sia venuto il momento?».

«Sono, non ci crederai, un po’ imbarazzata…».

«Con tuo fratello? Ma Eufemia!».

«Il fatto che mi ha spinto a decidere di sposare Gilberto è stata la presenza sempre più assidua di Mariagrazia in casa nostra. Perdonami, ma io sentivo che la sua presenza avrebbe portato dei cambiamenti. E allora…».

«Allora hai deciso di sposarlo per poi puntargli un coltello alla gola! Io ti conosco bene, so le tue rabbie, ma pensa a chi non ti conosce. Non ti dico di pensare a lui. Pensa alle tue di conseguenze. Se ti fosse scappata la mano? Se lui ti avesse denunciata?».

«Voleva chiamare il 118, il reparto psichiatrico d’urgenza, in effetti. Io però restavo lucida, lucida e cattiva… avevo o no, del resto, il coltello dalla parte del manico? Stronzo! Il milord che ha voluto pure le camere separate… come se fosse l’Avvocato. Ma ti sembro il tipo da camere separate?».

«No, no, Eufemia, ma giurami ugualmente che non farai mai più una cosa del genere!».

«Non te lo giuro, ma ti prometto che farò il possibile. E tu, Gastone, vedi di “metterla”nel modo giusto con Mariagrazia e trova un po’ di tempo per me».

«Te lo prometto, te lo prometto: anch’io ho bisogno di vederti non meno di quanto tu ne abbia di vedere me. Ora però mi bussano e ti devo lasciare. Ti richiamo presto».

«Mi raccomando, di mattina. Quando Gilberto non c’è».

. . .

Riagganciato con Gastone, Eufemia fece immediatamente un altro numero: 52 27 14. Si sentì rispondere come sempre: «Siii?».

«Sono Fimì, come stai Margherita?».

«Oh, Fimì, sapessi quanto ti ho pensata in tutto questo tempo e che gioia sentirti! Tutto bene?».

«No, tutto male. La vita con Gilberto è un inferno. Una vita di conti, di risparmi, di convenienze, di formalità. Può un uomo conoscerti in un modo e poi pretendere di fare di te qualcos’altro? Il mio essere diversa che tanto gli piaceva ora gli provoca solo fastidio. Vorrebbe fare di me la classica moglie borghese… ma ci pensi? La mia vita di un tempo mi sembra così lontana, una specie di età dell’oro perduta e irrecuperabile. Ti ricordi quante luci accese lasciavo sempre a casa dei miei e come Rosa correva per spegnerle, perché mio padre non trovasse bollette eccessive da pagare? Ti ricordi il nostro magnifico tran tran in quella casa… tu, io, Gastone, Oscar e a volte Gianguido e mia cugina Dalia? E tutte le nostre chiacchiere? E il coffee che a metàmattina ci portava Rosa per farci fare una pausa mentre studiavamo? E il nostro lessico familiare? E i soprannomi che tu ed io davamo a tutti i nostri compagni di università? E poi via! con la 1400 da Blanche, nella Palazzina di Caccia? Tutto finito. Tutto perduto».

«Anch’io ripenso a quegli anni, ora che mi trovo un Arturo che mi disprezza. Non voleva che mi laureassi perché sosteneva che bastasse il suo lavoro di medico per la famiglia e ora me lo rinfaccia. Mi fa sentire un fallimento. Non avrei dovuto lasciare le aule di Palazzo Nuovo per lui… Mi chiedo spesso cosa faranno “Ludwig”, “la Gallina”, “la Manomorta”, “il Pappagallo sul trespolo».

«E “Tette al vento”? Come eravamo stupide e felici! E, forse, neanche troppo stupide, ma felici sì… della nostra felicità perduta ne ho una sensazione certa. Ho proprio la certezza che fossimo felici».

«Fimì, ti devo dare una notizia: sono incinta».

«Incinta? Ma è incredibile… sì, una coincidenza incredibile… perché lo sono anch’io e tu sei la prima persona a cui lo dico. Non sono ancora riuscita a parlarne né con Gastone né con Blanche. Ma tu, per lo meno, sei felice?».

«E chi sa più cosa sia la felicità! E tu, Fimì?… la mia Fimì… mamma!».

«La tua Fimì non è mamma per nulla. Ho sempre creduto nell’amore, non nella maternità. Come non ho mai creduto nella violenza carnale. L’unica violenza che un uomo ti può fare è cambiare il tuo stato, è lasciare tracce di sé dentro di te. Ecco come mi sento: una donna violentata, violata perché incinta».

«Mi fai star male…».

«No, non star male. Ho pensato perfino di abortire quando nello specchietto sotto la fiala dell’orina è comparso un innegabile cerchietto rosso. Ma la Bonino e Pannella stanno ancora lottando… ce la faranno come per il divorzio? In ogni caso non so se poi ne avrei il coraggio…».

«Io per me sono più fiduciosa: forse un bambino potrebbe intenerire Arturo. Che ne pensi, Fimì?».

«Forse…».

. . .

«Gastone? Ma dov’eri finito? Non ti fai sentire da una vita. Ti cerco per le nostre serate di birra e Mariagrazia mi dice puntualmente che hai da fare. Ma credi di essere diventato il manager per eccellenza? Non più degno di uscire con un banale architetto? Fa forse troppo Sessantotto?» e, come sempre, le parole di Gianguido furono tutt’uno con le sue risate.

«Già… le birre! Le nostre Menabrea!».

«Di certo non le Peroni! ‘Chiamami Peroni, sarò la tua birra’, la tipa sarà anche una strafiga, ma la birra buona è un’altra cosa».

«Sto passando un periodo di incertezze, Gianguido, e per questo, ti prego, perdona il mio silenzio. Poi Mariagrazia vuole isolarmi da quello che era il mio mondo. Ecco perché ti dice…».

«Mi dici chi ve lo ha fatto fare, a te e a tua sorella, di sposarvi? Non stavate bene come eravate? Un po’ strani, d’accordo, ma, nella vostra naftalina, felici o, perlomeno, sereni. Sposarsi! Che cazzata! A me non passa neppure per l’anticamera del cervello… Pensa che ho intravisto Eufemia a teatro e non col suo solito Oscar, ma col marito. Mi ha guardato come una donna dietro le sbarre. Quel pelo rossola teneva sottobraccio…».

«La vita è cambiata anche per lei… Mi vuole vedere e io devo destreggiarmi con Mariagrazia… sai che ne è sempre stata gelosa. Ma credo sia cambiata anche per Margherita: mai più vista né sentita. Sì, Gianguido, credo che tu abbia proprio ragione: che c… sposarsi».

«E dai, Gastone, dilla una buona volta la parola “cazzata”, non essere sempre così educato! Dilla almeno al telefono. Fai come tua sorella e la sua amica più audaci e simpatiche di te».

«Sì, hai ragione, quando studiavano era tutto un “non so un cazzo”, “quella stronza”e poi ridevano. Ormai, qui, chi più ride? I soldi, la carriera, la rivalità di coppia… Chi l’avrebbe detto che quella ragazza che aveva bisogno del mio aiuto per superare un esame di economia fosse solo un’arrivista?».

«E allora mandala affanculo e stasera esci con me».

«Al Britannia Pub alle 21, d’accordo?».

«Sì, ma tu ripeti con me: affanculo!».

. . .

«Ciao, bello, sono Orazio. Ti volevo offrire un biglietto per La gatta Cenerentola. I lavori in Provincia hanno i loro vantaggi…».

«Per gli architetti bravi come te! Non per chi si ostina, invece, come me, in dipinti monotematici, così poco al passo coi tempi e con l’impegno politico. Bamboline, sempre bamboline e sempre oniriche. Capisci bene che non c’è legame con la realtà di oggi. Ora che persino Natalia, che ha sempre detto di non capire nulla di politica, ha ceduto al P.C.I.».

«Natalia chi?».

«Ma dai, la Ginzburg, chi se no? Ti ho detto più volte delle nostre serate di letture a casa di quell’amica di Giulio… e non mi chiedere adesso anche chi è Giulio! A Torino, lo sai bene, che ci sono solo due imperatori: l’Avvocato e Giulio Einaudi. Serate di letture in cui con Natalia abbiamo condiviso l’amore per Pasolini e per quei suoi versi de La nuova gioventù… Lo so, lo so che tu sei più moderno: Borges e il suo Bestiario immaginario, poi Marquez con L’incredibile e triste storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata. Io sono più “vecchia signora”, ho uno spirito più gozzaniano».

«Sei tagliente e ironico come Gozzano, questo sì! Ma, se è per questo, siamo entrambi due “vecchie signore”. In ogni caso la Provincia le mostre le ha fatte fare anche a te, Ario».

«Eh, ma solo quelle e senza biglietti teatrali in omaggio! Comunque, per quando sarebbe?».

«Per domani sera, al Nuovo. Sai, in un primo tempo, avevo pensato di andarci con Eufemia, per tirarla un po’ fuori dalla sua strana situazione, ma al telefono mi è parsa molto distaccata. Ha riagganciato poi con una certa fretta, dopo che mi è parso di sentire, nel sottofondo, la voce delrosso».

«Bello, ma odioso come sempre immagino!».

«Bello, non c’è dubbio, odioso pure! Ma chi l’avrebbe detto che anche Eufemia, come tutte le pompinare che ci circondano, avesse solo bisogno di un uccello?».

«Ma come puoi non capire, Orazio, che Eufemia non conosce i due registri, quello del cuore e quello del cazzo? Per lei è sempre stato importante solo il cuore… e ha creduto di trovarlo in una testa di cazzo!».

«Davvero spiritoso il maestro!».

«Spiritoso o no, non voglio che tu parli così di lei… della mia musa ispiratrice…».

«Non ti mettere ora a fare il paladino di Eufemia: anch’io la amo, e tu lo sai. Ed è per questo che m’incazzo… ed è per questo che non mi va giù la sua vita attuale».

«Una ragazza così… con un fratello così… è raro trovare un uomo così colto, raffinato, elegante».

«Io su Gastone ci avevo anche fatto un pensierino…».

«Ma sei proprio una puttana, Orazio!».

«E tu?».

«Alludi al pensierino o alla puttana?».

«Ma al pensierino, of course».

«No, cioè sì… No! e in ogni caso non mi sembra giusto parlare di questo per rispetto alla nostra comune amica».

«Ti sembra allora più decente parlare di Blanche? Lo so che ti è sempre piaciuta. In fondo, confessalo, sei un po’ reazionario…».

«Mentre il barricadero Orazio ha sempre fatto a gara per riaccompagnarla, dopo le cene a casa di Eufemia, alla Palazzina di Caccia. Povera Blanche! Rannicchiata nella tua Mini Minor…».

«Sempre meglio che nella tua R4 con i tubi che ti entrano nel culo! Comunque è vero, Ario, Blanche mi è piaciuta fin dalla prima volta che la vidi da Eufemia. Sai, penso spesso a questa città. Una città viva: lotte operaie, studenti in piazza, decentramento teatrale, teatro di strada. Poi le serate di Fo a Palazzo Nuovo, gli interventi della polizia, attori e spettatori rinchiusi per una notte alle Nuove… Ma lo zoccolo duro della borghesia, di una borghesia senza fascino alcuno, resta inattaccabile e inamovibile, chiuso e impenetrabile. Ecco allora come una Blanche così raffinata, intelligente, anticonformista, con le sue scelte alternative, ma non ostentate, rappresenti per me (e su questo punto sono in totale sintonia con le scelte di Gastone e di Eufemia) l’unico appiglio in tutto questo conformismo, in tutte queste chiusure di casta… casta alto-borghese, ma poi forse più piccolo-borghese di quella dei travet Fiat».

«Se mi permetti, la definirei, Blanche, una boccata d’aria fresca in mezzo a tutte quelle tue amiche o femministe o malmaritate o, peggio del peggio, femministe e malmaritate! Mentre Blanche con una vita non facile, anche se lei signorilmente non lo fa pesare, è riuscita persino, dopo la morte – la partenza, pardon – del Lestournelle a mettere in piedi quel negozietto di oggetti di pregio per quell’incapace di figlio e per famiglia di lui. Lo sai, no, che è in via Lagrange? Valla a trovare. La faresti felice. Io ci capito via via…».

«Ci andrò sicuramente, visto che ormai rimane l’unico modo di vederla. Ma…! Povera Eufemia! Chissà se la vede ancora la sua vecchia amica! Ora però dimmi, perché non ho più tempo di stare al telefono: mi fai o no compagnia domani sera? È alle 21. Ci potremmo trovare fuori dal Nuovo».

«Mais bien sûr, Orace».

. . .

Quella domenica di luglio era terribilmente calda: il clima impossibile della Torino d’estate. Dopo pranzo Gilberto se ne era andato in camera sua lasciando la porta semiaperta. Eufemia avrebbe preferito che la chiudesse. L’aveva sempre infastidita vedere quel corpo, anche se di un bel corpo si trattava, buttato in maniera così scomposta sul letto per fronteggiare la calura estiva. Era uno spettacolo che rasentava, ai suoi occhi, il disgusto.

Anche lei aveva caldo, era stanca e con, in più, un fastidioso senso di nausea. Guardò nella stanza del marito. Gilberto si era appena addormentato. Allora, piano piano, per non farsi accorgere, si avvicinò ai calzoni che lui aveva lasciato cadere a terra senza il minimo garbo. Infilò la mano nella tasca e prese le chiavi della macchina di cui lui era gelosissimo. Sempre in silenzio uscì di casa. L’auto, una Citroen DS color mattone (un colore del cazzo, aveva sempre pensato Eufemia), era posteggiata sotto casa. Eufemia si mise al volante e, con una lentezza che non era da lei, guidò verso il viale alberato. Pensò che odiava quella macchina, la sua nuova casa («un appartamento con rifiniture di lusso», come sempre le ricordavano i suoceri), la creatura che portava in grembo, perché odiava suo marito. Ma durante il tragitto, reso più lungo dalla sua lenta andatura, si accorse di provare un odio ancora più grande, un odio feroce, che le faceva aumentare la nausea dell’incipiente maternità, per sé stessa, perché della vita non aveva mai capito niente, perché addirittura non pensava che ci fosse qualcosa da capire. Perché per lei la realtà apparteneva solo al suo piccolo universo, fatto di case, di luoghi e di persone che amava. Credeva che un’armonia potesse miracolosamente unire il suo mondo a quello esterno. Pensava poi che le nuove persone che fossero entrate nel suo sarebbero state felici di farne parte, come era successo con Blanche. Ma Blanche era un’altra cosa, così ironica, curiosa, amorosa verso i due fratelli e i loro amici. Poi era vecchia.

No, no, Gilberto non aveva forse tutte le colpe, salvo quella di rappresentare quella realtà da cui due privilegiati come lei e Gastone, per indole o per educazione, chi lo sa, erano sempre rifuggiti.

Eufemia abbandonò i suoi pensieri quando, ancora una volta, vide la statua del cervo – che troneggiava in cima alla facciata – avvicinarsi ingrandendosi. Il solito segno inconfondibile che stava per arrivare.

E quando posteggiò l’auto, superata la catena che impediva l’accesso al pubblico in visita, come sempre sul lato sinistro della Palazzina di Caccia, si accorse, con sorpresa, che lì, a fianco, era ferma una 1400 nera.

Lucca-Fiumetto, luglio 2008

La foto di apertura è di Mariapia Frigerio

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