L’invasione russa dell’Ucraina non è giustificata da nessun punto di vista. L’Ucraina non stava entrando nella Nato. Stava però entrando nella democrazia: è questo che Putin temeva. L’aggressione è una tappa del percorso di ricostruzione della nazione-impero di impronta zarista. Un percorso iniziato nel 2008 con l’invasione della Georgia, andato avanti nel 2014 con l’annessione della Crimea, destinato ad allargarsi alle nuove repubbliche formatesi dopo il 1990. Putin aveva accennato a questo suo disegno in un teso video-discorso al Forum di Davos dello scorso anno, pochi giorni dopo l’assalto a Capitol Hill. Aveva preannunciato un’era oscura e distopica per l’umanità, simile alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Ne attribuiva la responsabilità a due cause: l’instabilità delle democrazie liberali, incapaci di far convivere commerci ed eguaglianza, e le tecnologie globali. Per questo, proponeva la segmentazione del mondo in singole regioni. Regioni geopolitiche che – oggi sappiamo – prefigurerebbero gli imperi del XXI secolo.
La Russia condivide questo disegno con altre tre potenze (Cina, Iran e Corea del Nord) per condurre un attacco al lungo predominio degli Stati Uniti e all’ordine internazionale guidato dall’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.
Siccome quella di Putin non è una guerra, ma un’aggressione ad un paese indipendente, occorre aiutare gli ucraini senza ambiguità, mandando armi e non solo latte per i bambini. Nello stesso tempo va rafforzato il patto di associazione (come fu stabilito nel 2014) dell’Ucraina ad un’unione doganale. Non si può andare avanti con l’alternativa “dentro oppure fuori dell’Unione”. Quest’ultima non è una bocciofila alla quale ci si può iscrivere. L’Unione è un’entità politica.
Tuttavia, l’Europa è più grande dell’Unione. Anche se molti continuano a confondere i due termini. Le mappe geografiche che, in questi giorni, girano sulla rete aiutano a distinguere tra l’Ue e il continente europeo. La cultura europea riguarda l’intero continente dall’Atlantico agli Urali. Occorre, pertanto, differenziare le varie forme di collaborazione tra i Paesi europei. Evitiamo di ripetere le esperienze negative della Polonia e dell’Ungheria, il cui nazionalismo sta spingendo indietro il processo d’integrazione.
L’aggressione di Putin mette in luce un problema che, negli ultimi tempi, non abbiamo colto nella sua pregnanza. La transizione ecologica e digitale va considerata dall’Ue una strategia interdipendente con l’autonomia strategica dell’Unione stessa riguardo alle sue capacità di intervento armato (da utilizzare nel contesto della Nato) e le sue capacità industriali e tecnologiche (per produrre strumenti bellici a difesa delle nostre democrazie), ma anche con l’autonomia strategica sul piano delle derrate alimentari e dell’energia.
Insomma, la crisi ucraina ci riporta ai tempi della nascita della Comunità europea. L’idea iniziale era, infatti, di mettere in comune tutto quello che serviva a difendersi dalle aggressioni e a dare sicurezza: carbone, acciaio, energia atomica, agricoltura e anche esercito (il progetto fallito della CED).
L’Ue è ampiamente autosufficiente nella maggior parte dei prodotti agricoli e alimentari. Ovviamente a condizione che il mercato interno funzioni regolarmente e nessuno Stato membro – come vuole fare l’Ungheria – sospenda le esportazioni di grano per assicurare i rifornimenti interni e contenere la crescita dei prezzi.
Tra le conseguenze dell’aggressione russa in Ucraina ci sarà la riduzione della disponibilità di prodotti alimentari, a partire da grano, mais e soia. Per quanto riguarda i cereali, la capacità produttiva unionale è tale da poter garantire il fabbisogno degli Stati membri. Ma l’Ue e gli Stati Uniti potrebbero farsi carico di rispondere alla richiesta di quei Paesi Terzi che sono più dipendenti dalle importazioni dai Paesi coinvolti nel conflitto.
Inoltre, ci sono prodotti, come le colture proteiche, che continuiamo a importare anche se potremmo coltivarli in autonomia. Per produrre latte e carne, infatti, alimentiamo gli animali con il mais importato. La metà arriva dall’Ucraina. L’altra metà è costituita in parte da coltivazioni Ogm immessi sul mercato mondiale a prezzi competitivi, ma la cui produzione è vietata ai nostri agricoltori.
È stato un errore favorire il depotenziamento produttivo, tecnologico e imprenditoriale dell’agricoltura europea. Come è stato un errore affidare a Putin il riscaldamento delle nostre case o l’alimentazione delle nostre imprese oppure la concimazione dei nostri campi. Peraltro, non si può continuare a sottovalutare che la Cina si è attrezzata per accaparrarsi il 69% delle riserve mondiali di mais, ma anche il 60% di riso e il 51% di grano, innescando una forte pressione sui prezzi in tutto il pianeta.
Questa situazione estremamente critica mette a nudo la fragilità delle politiche dell’Ue. Essa, ormai da tempo, ha di fatto smesso di costituire scorte strategiche delle principali derrate per garantire la catena dei rifornimenti alimentari. Ed è in atto una sorta di estensivizzazione dall’alto, mediante l’incoraggiamento a impegnare sempre maggiori superfici per le coltivazioni biologiche e a ridurre drasticamente l’utilizzo della chimica di sintesi.
Con l’avvio dell’ultima globalizzazione, a metà degli anni Novanta del secolo scorso, prevalse l’illusione che l’ampliamento degli scambi commerciali fosse di per sé sufficiente a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari nei Paesi industrializzati.
Solo a seguito della fiammata dei prezzi agricoli mondiali del 2007-08, riemerse con forza la consapevolezza del valore strategico del cibo e delle risorse per produrlo. E fu posta in dubbio la possibilità che l’offerta agricola fosse in grado di crescere a un tasso tale da rispondere all’incremento della domanda di alimenti. In altre parole, s’incominciò a guardare con preoccupazione alle proiezioni sulla crescita della popolazione mondiale e della domanda di cibo ad essa associata.
Ma nell’Ue si affermò frettolosamente l’idea che, per affrontare i nuovi scenari, l’attenzione si sarebbe dovuta rivolgere esclusivamente ad alcuni vincoli e variabili: terra, acqua, cambiamenti climatici, migrazioni. E venne accantonato il tema della necessità di aumentare la produzione agricola, sia per le esigenze interne, sia per contribuire a sfamare una popolazione mondiale in costante crescita.
A orientare la propria attenzione agli aspetti produttivistici è stata, in questi anni, soprattutto la Cina, incrementando le conoscenze e utilizzando le tecnologie disponibili. Basta un dato per rendersene conto. I brevetti riguardanti la tecnica CRISPR-Cas, infatti, sono stati depositati principalmente dalla Repubblica popolare cinese (92,5% per 235 famiglie di brevetti), seguita dagli Stati Uniti (4% per 10 famiglie di brevetti). Solo dopo viene l’Ue con un modesto 2,4% per 6 famiglie di brevetti.
Sia chiaro, non si tratta di tornare ad anacronistiche visioni autarchiche o di aspirare ad un’improbabile sovranità alimentare. Occorre, invece, affermare che la sicurezza alimentare è ancora importante sia in termini di food security che di food safety e va perseguita in termini di sostenibilità economica, sociale e ambientale. La nostra sicurezza alimentare va misurata a livello unionale e non nazionale. Dopo la Brexit, l’Ue è il maggiore esportatore di alimenti al mondo.
Sicurezza significa che dobbiamo produrre di più, utilizzando le tecnologie disponibili (eliminando ogni preclusione al biotech) e migliorando le strutture e l’organizzazione. Sicurezza è anche sinonimo di diversificazione delle forniture (es. non dipendere solo da un singolo Paese per qualche import), di diversificazione dei prodotti (es. per friggere ci sono diversi tipi di olio), di una strategia di stoccaggi di sicurezza che garantiscano quando bisogna fronteggiare le crisi.
Ma la sicurezza non basta. La nostra dipendenza da un sistema pacifico di relazioni mondiali è esistenziale. Possiamo ridurla, ma questo significherebbe realizzare l’obiettivo di Putin della segmentazione regionale del globo, lasciandone grandi parti in mano ad autocrati inclini prima o poi ad usare la forza fuori dal proprio ambito regionale.
L’Ue deve essere risoluta nel riaffermare il multilateralismo; nel rafforzare le istituzioni della cooperazione politica; nel rendere credibili le disastrate istituzioni di governance globale; nell’istituzionalizzare i rapporti economici globali; nel completare il processo di democratizzazione delle istituzioni unionali.
Dinanzi all’offensiva neoimperialista dei Paesi con regimi autoritari, bisogna evitare che si torni ad una situazione di più blocchi contrapposti come durante la guerra fredda. Occorre, invece, costruire un equilibrio appropriato tra cooperazione e deterrenza (una sorta di “coesistenza pacifica” nelle mutate condizioni di oggi).
I Paesi liberaldemocratici devono essere inflessibili nel difendere i valori della democrazia rappresentativa e dello stato di diritto (anche mediante forme di cooperazione politica), evitare di adottare politiche protezionistiche e proporre l’apertura di una nuova fase di accordi commerciali e di investimento internazionali, inserendo in essi clausole sociali e ambientali. Ci vuole un’intelligente strategia a geometria variabile che permetta la ripartenza di economie e società avanzate e la definizione di una nuova fase della globalizzazione.
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