Visioni

Craxi e l’agricoltura

Alfonso Pascale

Ho un ricordo di Bettino Craxi che mi piace rievocare a vent’anni dalla sua morte. Il 19 febbraio 1986 egli venne al congresso della Confcoltivatori che si stava svolgendo a Roma all’Auditorium della Tecnica. Era Presidente del Consiglio dal 1983 e sarebbe rimasto alla guida del governo ancora un altro anno. Entrò nell’aula mentre stava parlando il presidente della Coldiretti, Arcangelo Lobianco. Immediatamente i delegati incominciarono ad alzarsi in piedi e ad applaudirlo mentre si avvicinava alla presidenza. Lobianco s’interruppe: era consapevole che quell’attestazione di affetto e di amicizia non era per lui e si girò a guardare. «C’è un ingorgo di presidenti» esclamò scherzando quando capì cosa stesse avvenendo. E attese che la platea finisse di tributare al Presidente del Consiglio plauso e ringraziamenti per aver accolto l’invito al congresso. Non era mai accaduto fino a quel momento che un capo di governo o il segretario di un grande partito partecipasse ad una iniziativa dell’organizzazione.

Craxi fece un discorso non di circostanza ma puntuale e approfondito sulle condizioni dell’agricoltura italiana e sulle innovazioni che andavano introdotte per giocare una funzione da protagonista nello scenario internazionale che si stava aprendo. Giuseppe Avolio aveva presentato una relazione molto coraggiosa che poneva l’obiettivo di rendere più competitiva l’agricoltura italiana, con un programma di interventi per migliorare la qualità e diversificare le produzioni, abbandonando le tradizionali misure assistenzialistiche. Il premier mostrò grande interesse per questa impostazione. E aggiunse a mo’ di battuta: «I vecchi contadini, quando volevano sottolineare un lavoro malfatto e sollecitare un miglioramento, dicevano “Com’asino sape, minuzza rape”, cioè “l’asino trita le foglie di rape nell’unico modo in cui lo sa fare”; dunque, maggior sapere, miglioramento tecnico, innovazione, modernizzazione, incentivi allo sviluppo, sono le necessità dell’agricoltura perché essa possa raggiungere i traguardi che gli italiani e il futuro del paese gli assegnano». Poi volle andare più a fondo nell’analisi della situazione: «Negli istituti pubblici e professionali dell’agricoltura il molto vecchio convive con il nuovo; i servizi alle imprese agricole sono carenti, e in alcune province del tutto inesistenti; le facoltà di agraria registrano un calo di iscrizioni, che al contrario dovrebbero essere in aumento in considerazione dei ritmi di sviluppo dell’agricoltura, che continuano a superare i ritmi di sviluppo dell’industria; la ricerca registra punte avanzatissime, punte di livello mondiale, però anche assenze molto poco giustificabili, e l’uso dei prodotti della ricerca è ancora troppo poco diffuso ed ancora troppo limitato; un uso che non si estende alla massa delle imprese agricole che invece è assolutamente necessario che avvenga». E riferendosi all’ambiente, l’altro elemento che egli considerava decisivo, accanto all’agricoltura, precisò che esso «non conosce il suo degrado solo per gli inquinamenti industriali o per la sottrazione di terreno a fini urbani, ma anche e soprattutto per l’abbandono dell’uomo, per la cessazione di attività agricole non più remunerative». E dunque la tutela dell’ambiente doveva essere fatta ricostruendo, in forme moderne e tecnologicamente adeguate, il presidio umano nelle campagne: «La natura lasciata a se stessa non è così benigna come vorrebbero far credere tanti improvvisati ecologisti; è l’uomo che ha trasformato la natura ed è l’uomo che deve tornare a difenderla, a ripristinare con il suo lavoro e la sua intelligenza gli equilibri naturali sconvolti».

Craxi aveva iniziato il suo intervento allungando lo sguardo al futuro: «Il ventunesimo secolo sarà il secolo dell’agricoltura e dell’ambiente. Le ragioni di questa facile profezia sono semplici: raddoppierà la popolazione umana, ma non potranno raddoppiare le superfici coltivabili; dovrà dunque essere l’agricoltura, il suo sviluppo, la sua rivoluzione tecnologica a dare una prospettiva umana alle vicende storiche e politiche del prossimo secolo, evitando sconvolgimenti di cui sarebbe davvero difficile immaginare le proporzioni. La fame, come le grandi ingiustizie, è un forte incentivo di guerra, e la migliore diplomazia è sempre quella del pane; la grande sfida della pace si combatte anche sul terreno della produzione alimentare». E, dunque, all’interno di tale quadro internazionale, egli collocava una sua idea dell’Italia agricola e del ruolo che questa doveva svolgere nel mondo, partecipando attivamente al processo di modernizzazione economica e sociale.

Rileggere questi passaggi dell’intervento di Craxi al terzo congresso della Confcoltivatori serve a ricordare non solo la sua attenzione all’agricoltura e alle organizzazioni agricole, ma anche l’ampiezza e la lungimiranza della sua visione culturale e politica, nonché il suo modo di esercitare la leadership. Ripeto: non era mai accaduto che un Presidente del Consiglio o il segretario di un grande partito partecipasse ad un’assemblea della Confcoltivatori. Craxi compì quell’atto per due motivi. Innanzitutto perché egli aveva un’idea dell’Italia come sistema-paese, in cui tutte le componenti, indipendentemente dal peso specifico, dovevano agire nello scacchiere europeo e internazionale con una strategia concertata e riconoscendosi in una leadership, così come avveniva altrove nel mondo. E questa impostazione in Italia costituiva una novità rilevante, dopo il primo trentennio repubblicano caratterizzato da una presenza abbastanza grigia e distratta del paese nelle relazioni internazionali. Questa innovazione era un pezzo delle riforme istituzionali che lui e il suo partito avevano elaborato e intendevano realizzare nell’azione di governo. In secondo luogo perché il premier non trascurava – nel gioco competitivo con il Pci per l’egemonia culturale a sinistra – il fatto che a dirigere, al massimo livello, l’organizzazione agricola fosse un socialista, e non gli importava che non fosse allineato. Era, infatti, al corrente del dinamismo di Avolio nelle relazioni con numerose personalità del mondo economico e sindacale europeo. E che per questo suo attivismo, nel giro di pochissimi anni, la Confcoltivatori era riuscita ad entrare nel CESE, nel COPA e nella CEA e stava per fare il suo ingresso nella FIPA, la Federazione internazionale dei produttori agricoli.

Va, inoltre, considerato un altro elemento importante: la leadership di Craxi coincideva con la stagione del lungo potere di François Mitterrand in Francia e dell’impegno europeista di Jacques Delors al vertice della Commissione europea. Mentre in Germania Helmut Schmidt disegnava un volto nuovo della socialdemocrazia tedesca, sia con la sua esperienza di governo, sia con la sua incessante azione intellettuale. Egli stava, infatti, fornendo un contributo importante per allargare la Comunità ai paesi scandinavi e disegnare l’architettura dell’unione monetaria europea e della banca centrale europea. Inoltre, nel Parlamento Europeo, presiedeva la Commissione per gli Affari istituzionali il federalista Altiero Spinelli che il 15 febbraio 1984 aveva fatto approvare dall’Assemblea il Progetto di Trattato istitutivo dell’Unione Europea.

Fortemente collegato a questi grandi protagonisti, Craxi elaborava in Italia una visione politica di chiaro impianto socialdemocratico ed europeista con Giolitti e, poi, Ripa di Meana nella funzione di Commissari europei.

Si trattava, dunque, di un mosaico che evidenziava una vivace presenza socialista sul tema dell’Europa che serviva a bilanciare gli orientamenti sempre più conservatori che il peso dello schieramento di destra imponeva alla Comunità europea. Gradualmente emergeva la volontà di elaborare un europeismo più legato a valori e interessi della sinistra. Del resto le radici di tale impegno erano profonde: Jean Monnet aveva coniugato il suo europeismo e il suo atlantismo con una grande apertura alla socialdemocrazia, basata sulla cultura keynesiana e pianificatrice.

L’Italia di Craxi, dopo quant’anni di convinta lealtà atlantica pretendeva ora maggior credito e maggiore fiducia dai propri alleati. Era un moto di orgoglio, ma ispirato e nutrito da un’idea d’Italia molto precisa e legata profondamente alla storia del paese. E il valore dell’agricoltura, la sua cultura, la molteplicità dei suoi modelli imprenditoriali e territoriali, la capacità di modernizzare e innovare il settore dimostrata dagli agricoltori e dalla struttura tecnico-scientifica pubblica, tra gli anni Cinquanta e Settanta, contribuivano nel forgiare un’immagine di paese che ambiva a ragion veduta a ottenere uno spazio da protagonista nelle relazioni internazionali e, in modo specifico, nel Mediterraneo.

In quel congresso avemmo netta la sensazione di vivere una stagione politica promettente e aperta a grandi opportunità. Intervennero il Commissario europeo Ripa di Meana, il Vice Presidente del CESE e i rappresentanti delle organizzazioni agricole europee. Si respirava un’aria di rinnovamento nelle idee e nel linguaggio. Un clima culturale e politico che provocava tensioni e un enorme disagio in chi si attardava nei vecchi ideologismi e ritualità. Soprattutto tra noi comunisti era visibile un forte nervosismo, un palpabile impaccio per un mondo che cambiava senza di noi. Anzi, anche contro di noi.

Con l’allontanamento di Craxi dal governo quella stagione si concluse. Rimasero in piedi alcune iniziative che erano state avviate in quegli anni. Una di queste era il processo di riforma costituzionale, che aveva fatto maturare una serie di proposte elaborate dalla Commissione Bozzi, tra il 1983 e il 1985, e che era stato seguito, per conto del governo, dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Amato. E un’altra era la riforma del Trattato istitutivo della CEE. Il Progetto Spinelli approvato dal Parlamento Europeo e sostenuto con forza da Mitterrand, Kohol, Craxi e altri capi di governo, anziché essere inviato ai Parlamenti nazionali e discusso coi deputati europei, fu affidato alle diplomazie degli Stati membri che, nelle nebbie di una Conferenza intergovernativa, lo trasformarono nell’Atto Unico Europeo firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986. Spinelli fece in tempo, prima di morire a maggio di quell’anno, a denunciare l’errore che era stato compiuto dai capi di governo (affidarsi ad un organismo di burocrati degli Stati, per sua natura restio a costruire la democrazia oltre lo Stato) e a indicare la strada del referendum di indirizzo per affidare il mandato costituente ai parlamentari europei. Quella indicazione, in Italia, divenne legge costituzionale e così gli italiani, in occasione delle elezioni europee del giugno 1989, si pronunciarono a larghissima maggioranza per riformare il Trattato e creare l’Unione politica europea.

Ma si arrivò tardi. In autunno cadde il Muro di Berlino e tutto un mondo costruito sugli equilibri della “guerra fredda” precipitò. Tutti reagirono all’insegna del “si salvi chi può”: ogni singolo paese e ogni singolo partito si posero in difensiva con spirito di autoconservazione, ciascuno rinchiuso nei propri egoismi e nelle proprie identità. Si fece solo il Trattato di Maastricht con le poche opportunità che si aprirono e i forti limiti che ancora oggi scontiamo.

La stagione del riformismo europeo, fortemente influenzato da Craxi, Mitterrand e Schmidt, subì una seria sconfitta.

Tangentopoli venne immediatamente dopo e, al di là degli aspetti giudiziari, quel terremoto fu utilizzato per intorbidare e ammorbare il dibattito politico. Ancora oggi non riusciamo a discutere serenamente e con la necessaria onestà intellettuale di quella stagione, delle tante ambizioni e degli errori enormi che la caratterizzarono. E senza questa discussione, non possiamo ripartire.

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