Visioni

Fui un imperatore e sono solo un uomo

L’incontro tra Dante e Giustiniano

Sante Ambrosi

Mentre l’opinione pubblica era completamente assorbita dalla scomparsa di Silvio Berlusconi, un personaggio certamente significativo che ha influenzato molti aspetti della nostra vita personale e collettiva, il sottoscritto, non sentendosi particolarmente coinvolto, pur riconoscendo sinceramente l’importanza del personaggio, si è cercato un angolo silenzioso per riflettere sulla morte delle persone comuni e di chi ha sempre vissuto sotto i riflettori.

Per fare ciò, mi sono venute in aiuto alcune pagine del Paradiso di Dante, in modo particolare i canti V e VI. Nella sua scalata verso il Paradiso, Dante desidera incontrare un personaggio di grande fama che gli sta particolarmente a cuore, Giustiniano: un grande imperatore, uno del tardo periodo, che, purtroppo, dice Dante, è stato abbondantemente disatteso dalla Chiesa e dallo stesso impero. Dante vuole ripensare e valorizzare la grandezza di Giustiniano, non tanto per il suo potere politico o per le sue imprese militari ma per il contributo che egli ha lasciato all’umanità intera con il suo Codice.

Il poeta vuole recuperare questo personaggio anche alla luce delle divisioni e delle lotte che lacerano la società del suo tempo, pensando soprattutto alla sua personale, tragica, esperienza e alle lotte devastanti tra Guelfi e Ghibellini, tra città e principati nascenti in quel periodo.

Il mio obbiettivo qui è quello di descrivere l’incontro tra i due, cantato dal sommo Dante. Quando il poeta giunge al cielo di Mercurio, vede un lume tanto splendente che desidera parlargli e lo fa con il supporto gentile di Beatrice, che lo guida nel suo cammino:

[…] detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii»

«Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’e’ corusca sì come tu ridi;

ma non so chi tu se’, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a’ mortai con altrui raggi».

Questo diss’io diritto a la lumera
che pria m’avea parlato; ond’ella fessi
lucente più assai di quel ch’ell’era.
(Pa, V, 122-132)

È questa la prima e potente immagine che Dante coglie e descrive con chiarezza e forza: nessun potere, nessun merito politico, né grandezze di vario genere, ma solo una luce abbagliante che veste e nasconde il personaggio agli occhi dei mortali e di Dante stesso. La figura è avvolta in una luce che non è frutto delle sue opere terrene ma che sappiamo essere Dio nella sua misericordia e giustizia.
In seguito a questa presentazione del poeta, interviene la confessione dello stesso Imperatore:

Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.
(Pa, VI, 10-12)
 
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;
 
e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.
(Pa, VI, 22-27)

Questa confessione conferma la prima immagine che il poeta ha colto e la avvalora con un tocco personale nel quale l’imperatore si presenta semplicemente come un uomo, come a dire che quello che è stato non conta: conta solo il suo nome, la sua persona in qualità di cristiano battezzato e bisognoso di essere redento.

Riflettendo su questi versi con i quali Dante presenta un personaggio di così grande impatto, ho notato delle affinità con la conclusione dell’omelia pronunciata dall’arcivescovo di Milano nella sua cattedrale, in occasione dell’ultimo saluto a Silvio Berlusconi: «Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento. Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio.»

E noi, senza forzature possiamo aggiungere: un uomo solo e bisognoso di essere giustificato. Sappiamo da San Paolo che la giustificazione, con tutto ciò che essa comporta ed esprime, è sempre e solo grazia che può giungere solo dalla misericordia e non dai nostri meriti.

Un commiato così pensato non è solo un saluto ad una persona morta ma un annuncio di speranza per ogni uomo, grande o piccolo che sia.

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