Visioni

Il gastropopulismo e la retorica del mangiare italiano

Alfonso Pascale

Non è la prima volta che la destra intreccia la critica alla modernità con la retorica del mangiare italiano. La novità è un’altra: il disegno di legge con cui il governo vuole mettere al bando la carne coltivata giustifica il divieto in base al principio di precauzione. Ma non ci sono ragioni salutistiche per invocare tale principio. È lo stesso ministro della Salute Schillaci a precisarlo. Nella conferenza stampa di presentazione del disegno di legge, egli ha affermato che esso “si basa sul principio di precauzione, perché al momento non ci sono evidenze scientifiche sui possibili effetti dannosi dei cibi sintetici”. Ma se non ci sono evidenze scientifiche sui possibili danni della carne coltivata cosa c’entra il principio di precauzione? In realtà, analizzando meglio le dichiarazioni di Schillaci e del suo collega Lollobrigida si capisce che i fantomatici rischi da prevenire sono altri: la concorrenza, la ricerca scientifica e l’innovazione.

Eppure, se il metodo dovesse, come pare, funzionare e le analisi di non nocività venissero confermate, la carne coltivata in laboratorio potrebbe dare un enorme contributo alla soluzione di due problemi: la fame nel mondo e la tutela ambientale. Ma, come si sa, a questi due problemi i sovranisti non sono affatto sensibili.

Già in passato, nella loro propaganda, Meloni e Salvini sono ricorsi al gastropopulismo: cioè all’idea che coloro che mangiano cose diverse da noi sono diversi da noi, e magari inferiori. Dapprima, la Lega Nord ha usato il cibo per alcuni dei loro manifesti elettorali di maggior impatto: “Sì alla polenta, no al couscous oppure “No al kebab, sì alla socca”. Ma il couscous è un piatto presente fin dal 1891 anche nella bibbia della cucina italiana, “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi. Dal canto suo la socca, quasi identica alla cecina livornese, alla farinata di Genova o alle panelle siciliane, non è altro che una preparazione a base di farina di ceci tipica proprio del Maghreb e poi diffusasi a partire dalle città di mare del Mediterraneo.

L’intreccio tra islamofobia e identità emerse con virulenza nel 2019 in occasione della festa di San Petronio, patrono di Bologna. Accanto ai cinquecento chili di tortellini a base di carne di maiale erano stati serviti anche cinque chili di tortellini con il ripieno a base di pollo. Un atto inclusivo verso chi non voleva mangiare carne di maiale. Apriti cielo! La polemica divampò sulla stampa nazionale. Salvini accusò l’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, di “cancellare la storia d’Italia”. Oltre a vari gastronomi bolognesi, intervenne anche Romano Prodi sul “Messaggero”. Tra l’altro, venne fuori anche in questo caso un dettaglio paradossale: l’antica ricetta di tortellini – accuratamente descritta dall’”Apicio moderno” di Francesco Leonardi – non prevedeva il maiale, che comincia ad essere parte integrante dei tortellini solo a partire dalla ricetta resa canonica da Artusi. Ma tant’è: una tradizione inventata e “nazionalizzata” ha offerto il destro a un movimento populista per creare un affaire ed ergersi a difesa dell’identità.

Il giornalista Antonio Socci aveva già polemizzato su “Libero” con papa Francesco, quando questi aveva offerto ai senza tetto di Roma un pranzo in Vaticano. Per non mettere in difficoltà le persone di religione musulmana, il papa aveva ordinato di servire la lasagna senza carne di maiale. In quella occasione, Socci aveva accusato Bergoglio di aver aderito a “un’ideologia suicida e multiculturalista che porta al rifiuto di tutto ciò che è cristiano o occidentale”. La lasagna a base di maiale – aveva sostenuto Socci – è una spina dorsale della “civiltà italiana, come il vino e il parmigiano”.

Successivamente, Salvini ha attaccato l’Unione europea per le norme sulla tracciabilità degli alimenti che impedirebbero la vendita della pasta fatta in casa. Ha detto in televisione: “Se vieni a Bari e non ti piacciono San Nicola e la focaccia, torna al tuo paese”. Si riferiva al patrono della città e a una delle specialità culinarie locali. Eppure, nessuno aveva sollevato problemi per la focaccia pugliese. La difesa di Salvini è stata preventiva: far capire che “non dobbiamo cambiare le nostre tradizioni”.

Anche Giorgia Meloni, qualche anno prima, si era fatta filmare in cucina mentre preparava una caprese “genuina, tricolore e italiana”: un video elettorale contro i prodotti alimentari non italiani.

Il ministro Lollobrigida non ha perso l’occasione per combinare propaganda e cibo quando gli irlandesi hanno annunciato l’obbligo di indicare sull’etichetta delle bevande alcoliche il legame tra alcol e rischi per la salute, su cui ci sono comprovate evidenze scientifiche. Il titolare del dicastero di via XX settembre, appoggiato da alcuni medici privi di scrupolo, non ha esitato ad affermare che il vino fa bene alla salute: anche in questo caso, si è rispolverata la retorica identitaria che sottende la narrazione della cosiddetta “dieta mediterranea”.

Ora il bersaglio del gastropopulismo è la carne coltivata. L’attacco è diretto, da una parte, alla scienza e all’innovazione in nome del richiamo nostalgico al passato. E, dall’altra, a fantomatici potentati multinazionali che metterebbero in discussione l’identità culturale della nostra cucina.

Il fenomeno non è soltanto italiano. Poco prima della Brexit, il ministro inglese dell’Ambiente, Michael Gove, aveva richiamato la necessità di essere più patriottici nella scelta dei cibi e aveva invitato a mangiare formaggi nazionali.

L’hamburger halal, che ha conquistato un’ampia fetta di mercato specie per il tramite della catena Quick (nata in Belgio nel 1971 ma poi diffusasi anche in Francia), è diventato insieme al velo una sineddoche della minaccia ai valori dell’universalismo repubblicano e il segno di differenze culturali presentate come insormontabili.

A Nizza gli “Identitaires” hanno organizzato eventi gastronomici. E a Lione hanno tentato di mettere in piedi una “marche des cochons”. Hanno organizzato “soupes identitaires” a base di maiale e “Apéro saucisson et pinard”.

Le esibizioni di trashfood di Trump sono note, così come quelle di Bolsonaro. Quest’ultimo è apparso spesso in televisione mentre mangiava la pizza o altre vivande all’insegna della semplicità. Ma anche con forti richiami alla difesa delle cucine nazionali.

Insomma, il gastropopulismo è una modalità con cui i sovranisti si esprimono un po’ dappertutto. E accomuna sia quelli di destra che quelli di sinistra. In Francia sono stati José Bové e la Confédération Paysanne a collegare la critica alla globalizzazione con l’idea di tutelare le specificità locali. In Italia si sono sperimentati in tale impresa Carlo Petrini e il suo movimento Slow Food. La caratteristica nostrana è che a tenere unito sovranismo di destra e quello di sinistra ci pensa la Coldiretti: una spregiudicata e ancora potente lobby che suggerisce il copione a Meloni e Salvini e, nel contempo, fa presiedere a Petrini una sua importante articolazione, la fondazione “Campagna amica”.

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