Nel 1954 il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi riceve al Quirinale il magistrato Peretti Griva, il deputato comunista Arrigo Boldrini, medaglia d’oro della Resistenza nonché dirigente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI), Carlo Levi e il padre dei sette fratelli Cervi, fucilati dieci anni prima dai nazisti, che di medaglie dunque ne porta al petto sette. Il Presidente simpatizza subito con papà Cervi e si mostra commosso per il fatto che tra le letture dei fratelli-eroi ci sia stata la Riforma sociale, rivista da lui in altri tempi diretta, mentre l’altro si riferisce proprio alla curiosità culturale come all’origine della passione dei suoi figli per l’innovazione agraria, e narra delle migliorie da essi introdotte nel fondo che tenevano in affitto, rievocando le canzonature che quell’attivismo era loro costato da parte dei vicini.
Quando Einaudi parla a sua volta delle innovazioni da lui introdotte nei suoi vigneti piemontesi, Alcide Cervi passa a spiegare il modo in cui, d’accordo con le nuore, ha ripreso in mano l’azienda dopo la tragedia e il come aveva regolato le complesse questioni d’interesse da questa derivate. È qui che il Presidente pone una domanda ai convenuti: «Forseché i sette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po’ pazzi costruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio costruttore della legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loro paese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della lingera e girano di terra in terra, senza fermarsi in nessun luogo?» Carlo Levi risponde: «Credo di no». E tutti gli altri acconsentono.
Rievocando l’incontro, lo scrittore-pittore osserva che Cervi ed Einaudi, il primo comunista e l’altro liberale, hanno qualche cosa in comune, perfino una certa somiglianza fisica nel viso, nell’intensità dello sguardo, nei tratti della fisionomia, più robusti e incisi nel contadino reggiano, più raffinati e sottili nello studioso piemontese, ma tuttavia segnati da un’evidente parentela: il legame profondo con la terra, la propria terra, come elemento costitutivo della libertà, della socialità, della responsabilità, dell’innovazione e della democrazia. «La libertà così ancorata agli oggetti persistenti – continua Levi – non è dunque mai astratta e puramente ideale (…) è vivente nelle cose, nella terra, nella parte di noi che non si muove come fronda al vento, non diventa estranea, né serva dell’alienazione senza radici».
Quando il rapporto che l’agricoltore ha con la propria terra è profondo, stabile e responsabile, egli è in grado di aprirsi ad un rapporto virtuoso con la scienza e introdurre innovazioni per soddisfare le proprie esigenze e, nel contempo, farsi carico dei bisogni collettivi, contribuendo così ad elevare il livello di democrazia e di civiltà di un paese. È proprio la storia delle campagne a mostrare come l’eguaglianza si può allargare sempre più, ma a patto che anche la libertà si valorizzi al massimo livello possibile. Con l’innovazione tecnologica e l’innovazione sociale, libertà ed eguaglianza non si contrappongono ma si completano e si arricchiscono a vicenda. In agricoltura come in tutte le attività economiche.
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