Non sappiamo se la cittadinanza possa essere un antidoto al rancore, ma è una pista che ci piace seguire. E così potremmo verificare nei fatti se questa idea può essere condivisa e produrre risultati concreti.
Nella società odierna prevale la logica corrosiva della divisione, dell’individuazione del nemico da combattere, del rancore che impedisce il dialogo e la comprensione reciproca, della paura che chiude in difesa del presente, con una visione del futuro comune che diventa così sempre più buia.
A questa logica si potrebbe controproporre il desiderio di mettere in gioco le energie vitali e positive dei nostri territori. Si tratta di costruire il luogo “futuro” in cui collocare capacità e specificità in coerenza con le trasformazioni del mondo che cambia. Un luogo “futuro” che abbia tutta la forza di attrarci verso di sé, perché rappresenta ciò che possiamo e vogliamo diventare. Un luogo “futuro” in cui essere protagonisti dell’odierna rivoluzione tecnologica e digitale. La quale ha prodotto la globalizzazione (apertura dei mercati riduzione delle condizioni di miseria nei paesi emergenti, crescita dei fenomeni migratori) e ha svuotato la sovranità degli stati nazionali.
Viviamo una condizione di ansia e di inadeguatezza. Non ne sappiamo abbastanza. Il mondo ci ha trasformato sotto i nostri stessi occhi, ma stentiamo a capire il senso dei cambiamenti e le loro conseguenze. La digitalizzazione delle nostre vite ha cambiato il modo in cui si formano le idee e, soprattutto, si distribuiscono tra gli altri. Tentiamo a negare o a sminuire le esperienze innovative di chi accoglie la sfida dei cambiamenti. E questo perché non le vediamo alla nostra portata.
Sbaglieremmo a metterci sulla difensiva, coltivando il mito di un ritorno nostalgico al passato, alle comunità chiuse, alle economie autarchiche, agli atteggiamenti antiscientifici e superstiziosi.
Abbiamo bisogno di imboccare strade nuove. E per farlo avremmo bisogno di coltivare un sentimento di cittadinanza attiva, di partecipazione diretta a difesa della democrazia e delle istituzioni repubblicane in modo da costituire un argine alla diffusione dei sovranismi e dei totalitarismi, un contrasto alla diffusione delle teorie di odio, discriminazione, intolleranza.
Andrebbe colmato un vuoto che da decenni impedisce un ordinato ed efficace ricambio di classe dirigente. In tempi come quelli che viviamo, anche un manager d’impresa dovrebbe saper collegare la propria conoscenza specialistica con la consapevolezza civica più generale del suo ruolo nella propria comunità di valori, interessi e bisogni. L’obiettivo, oltre all’acquisizione di un sapere tecnico-specialistico, è la valorizzazione ideale e civile della formazione. Solo così potremmo guardare al futuro con ragionevoli speranze.
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