Visioni

La sindrome dell’impotenza e della delegittimazione

Alfonso Pascale

La riduzione quantitativa dei rappresentanti nelle assemblee elettive – come misura di aggiustamento del dispositivo politico che incarna il diritto dei cittadini all’autogoverno – è uno strumento che arriva ormai fuori tempo massimo.

Tale misura fu pensata negli anni Ottanta del secolo scorso nel quadro di un riformismo costituzionale elaborato tutto dentro al paradigma di un ordinamento democratico funzionale alla società fordista, con le sue peculiari forme di socialità e con la sua specifica tecnologia.

Nella nuova era tecnologica che stiamo vivendo è un espediente del tutto inutile per affrontare la crisi della democrazia e non promette nulla di positivo. Anzi riduce le concrete possibilità di coniugare in modo virtuoso rappresentanza e nuova soggettività politica dei cittadini che internet e, specificamente i social, hanno potenziato. Possibilità che le nuove tecniche consentono solo se si razionalizza il potere dei partiti e si riorganizza il rapporto tra rappresentato e rappresentante.

La democrazia è un sistema politico in cui periodicamente il popolo che lo adotta è chiamato a votare senza discriminazioni per decidere come autogovernarsi, poiché si riconosce sovrano di se stesso; e questo diritto viene esercitato con la possibilità di scegliere tra schieramenti diversi, in condizioni di ragionevole libertà e sicurezza personali, e senza il rischio di brogli generalizzati.

Al centro della democrazia, dunque, c’è il diritto di ciascun cittadino di prender parte al governo della comunità cui appartiene e alla formazione delle sue leggi.

In nessuna democrazia l’autogoverno si esercita direttamente. Questa funzione la collettività (sovrana) la trasferisce periodicamente ai suoi rappresentanti, che il voto serve appunto per e-leggere: cioè (letteralmente) per scegliere e designare.

Fra i cittadini e la loro sovranità si istituisce la mediazione tutta moderna dei Parlamenti, e con essi il filtro dei partiti, in quanto organizzatori della rappresentanza.

Quando si parla di democrazia si fa riferimento ad un dispositivo politico che tiene insieme sovranità, voto, rappresentanza e partiti. E quando si dice che la democrazia è in crisi ci si riferisce alla profonda sfiducia che questo composito dispositivo politico ormai genera riguardo alla sua idoneità a incarnare la sovranità dei cittadini. Una sfiducia generalizzata in tutto il mondo alle prese con una rivoluzione tecnologica di enorme portata e con un processo di globalizzazione che hanno determinato una asimmetria tra la dimensione planetaria dei problemi e la dimensione nazionale dei sistemi democratici.

In Italia, a tale disincanto dovuto alla sindrome dell’impotenza democratica si aggiunge un’aggressiva contestazione del rapporto – così come si è edificato – fra sistema dei partiti e formazione della rappresentanza.

Non si tratta di “antipolitica” o di “rifiuto della politica” – come si pensa comunemente – ma di rifiuto del modo concreto con cui si realizza il rapporto cruciale fra sovranità e rappresentanza. Fortemente contestati sono essenzialmente due elementi: a) il funzionamento delle assemblee elettive; b) il peso dei partiti nella gestione della cosa pubblica.

In sostanza, nel nostro Paese si sommano la sindrome dell’impotenza democratica e la sindrome della delegittimazione. Sono molti ad essere convinti che siamo prigionieri di un sistema democratico che non funziona, non regge le sfide dei tempi e che ci rappresenta in modo del tutto insufficiente.

Nel frattempo, la rivoluzione digitale ha accresciuto enormemente le richieste, le attese, le esigenze di cui oggi investiamo l’ordinamento democratico. Il nuovo potere che internet ha creato è fatto di un nuovo tipo di “uomo forte” che si sta imponendo nel mondo per la sua capacità di utilizzare le nuove tecniche. Ma è anche l’arena in cui stanno diventando protagonisti movimenti di ogni genere, compresi quelli tesi a modernizzare la società, migliorare la convivenza, affermare diritti.

Siamo dentro ad un paradosso che ci sta travolgendo. I social aumentano in maniera vertiginosa le nostre facoltà individuali, spingono in avanti le nostre soggettività, ridefiniscono le nostre relazioni con il mondo – più conoscenza, più informazioni, più connettività, una diversa qualità del lavoro – e perciò ci hanno reso esigenti come mai eravamo stati rispetto alla politica (democratica). E verso la politica (democratica) indirizziamo sempre nuove domande di riconoscimento. E tutto questo avviene mentre la politica (democratica) non regge il passo dei tempi, e appare come una funzione drammaticamente obsoleta e affidata a meccanismi arcaici e privi di efficacia.

La democrazia rappresentativa è nata incorporando dentro di sé una socialità e una tecnologia che erano quelle della rivoluzione industriale. La completa trasformazione delle forme di socialità e delle tecniche con cui ci relazioniamo con il mondo esige un mutamento altrettanto radicale anche nelle istituzioni della politica.

La riduzione quantitativa dei parlamentari è un’idea elaborata tutta dentro al paradigma di un ordinamento democratico funzionale alla società fordista.

Oggi diventa un espediente del tutto inutile per affrontare la sindrome della legittimazione democratica. Anzi riduce le concrete possibilità di riformare la relazione tra rappresentanza e soggettività politica dei cittadini che internet e, specificamente i social, hanno potenziato. Possibilità che le nuove tecniche consentono solo se si razionalizza il potere dei partiti e si riorganizza il rapporto tra rappresentato e rappresentante.

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