A che deve servire la politica? A decidere del futuro di una comunità. Non un futuro lontano e generico, in cui porre tutto… e il contrario di tutto, una cosa… ma anche il suo opposto. Tanto poi – si dice – accadrà quel che accadrà indipendentemente da noi.
La politica deve servire a decidere hic et nunc di un futuro prossimo che obbliga. Per dare un senso concreto al carattere obbligante dell’avvenire ci aiuta un’espressione comune: “per i nostri figli”. La misura concreta del tempo della politica dovrebbe difatti essere la stessa delle azioni e delle opere che svolgiamo nella vita di ogni giorno: guardare alla generazione successiva alla nostra.
Come osserva Salvatore Natoli, il termine ebraico per “generazioni” è “dor”, che significa “cerchio”, “riunirsi attorno”: indica dunque continuità e passaggio. Infatti, nell’espressione “di generazione in generazione” più che il termine “generazione” sono importanti le preposizioni “di… in…” che indicano ciò che nel tempo dura: indicano un inizio di cui non si vede l’origine e un futuro di cui non si vede la fine.
Anche l’umanità, come l’avvenire, non è un’astrazione. La si riconosce e rispetta nell’uomo che ci sta accanto. C’è un comune futuro che lega le generazioni l’una all’altra e c’è un comune senso di umanità che vincola uomini e popoli.
La politica deve provvedere a ciò che è comune. Soprattutto nei crocevia della storia. E anche quando chi agisce non vedrà l’esito di ciò che fa. Nel passaggio da una generazione all’altra non possiamo evitare la morte e il dolore connesso alla nostra mortalità. Ma quello che sicuramente possiamo evitare è il dolore che c’infliggiamo l’un l’altro. Questo è il terreno proprio della politica.
Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui
Commenta la notizia
Devi essere connesso per inviare un commento.