Visioni

Per una visione dinamica della tutela dei paesaggi storici

Alfonso Pascale

Leggendo l’interessante articolo di Salvatore Settis (“Serve un piano nazionale a tutela dei paesaggi storici” – La Domenica – Il Sole 24 Ore del 14 ottobre 2019), non ho potuto fare a meno di tornare a riflettere sull’idea di paesaggio agrario elaborata da Emilio Sereni.

Per lo storico dell’agricoltura esso è «quella forma che l’uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale» (“Storia del paesaggio agrario italiano”, Laterza, 1961). E dinanzi all’insistenza del professor Settis ad affrontare l’emergenza xylella non solo dal punto di vista agronomico ed economico, bensì con «un piano lungimirante… pensando al futuro del paesaggio storico del Salento con piena cognizione del suo passato», non ho potuto esimermi dal ricordare quella essenziale convinzione manifestata da Sereni in campo storiografico relativa al carattere unitario della storia: «… non si dimentichi mai che la storia è una» (Prefazione alla “Storia agraria romana” di Max Weber, Il Saggiatore, 1967).

Per lo studioso delle comunità rurali occorre ricondurre ad unità diversi modi di fare storia dell’agricoltura: quella degli agronomi, l’altra ancora degli economisti e dei giuristi e quella – che egli introdusse per la prima volta – dello studio delle trasformazioni del paesaggio agrario, delle caratteristiche ambientali dei territori e delle culture alimentari.

Ma veniamo all’articolo dell’archeologo Settis. Correttamente egli definisce la xylella una peste del nostro tempo a cui si poteva impedire di distruggere completamente il paesaggio agrario salentino se si fossero messe in atto per tempo appropriate strategie di contenimento. Ma in che modo – questa è la preoccupazione che egli vuole trasmetterci con il suo articolo – tali strategie potranno tener conto dell’esigenza di tutelare il paesaggio storico? E a mo’ d’esempio il professore elenca alcuni problemi: « …qua e là campi di ulivi lasciano il posto a distese di pannelli solari; altri, specialmente in aree di piccola proprietà, vengono abbandonati, e le aziende agricole sono costrette a vendere le loro attrezzature (per esempio gli scuotitori di olive) ad altri Paesi produttori, dalla Grecia al Marocco; altri ancora ospitano, per sopravvivere, culture o attività estranee alla tradizione e alla storia dei luoghi. Ci sono, è vero, altre specie olivicole che sono, a quel che pare, immuni all’infezione da xylella, e qua e là si progetta di impiantarle in luogo degli ulivi defunti: ma quanto ci vorrà per ricostituire la forma del paesaggio storico? E quali specie olivicole sono davvero compatibili con il ripristino di un paesaggio degno del Salento?».

Sembra emergere, dunque, una visione della tutela del paesaggio storico salentino statica e meramente conservativa. Come se si dovesse ripristinare tutto quello che ha caratterizzato gli ultimi quattromila anni storia. Che nel “costruire” la storia del Salento si debba aggiungere anche lo studio archeologico dei luoghi è fuori dubbio. Ma non si deve mai trascurare che la norma costituzionale “la Repubblica … tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione – art. 9.2” è preceduta nel medesimo articolo da un’altra norma di pari pregnanza: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica – art. 9.1”. E i due dettati vanno sempre letti in modo congiunto.

Sicché è vero che il futuro dei territori olivetati distrutti dalla xylella debba tener conto dei saperi esperienziali e storici accumulati nei loro paesaggi. Ma questa condizione va fatta salva guardando alla storia dei luoghi con una visione unitaria: a partire dalle trasformazioni dei sistemi sociali con cui si è retto per millenni il rapporto tra uomo e natura e dal modo come la scienza e la tecnica hanno supportato le trasformazioni.

Oggi c’è una novità che Sereni aveva già intravisto cinquant’anni fa e che va tenuta nel debito conto: la rivoluzione scientifico-tecnologica in atto è diventata essa stessa fattore produttivo e ai vecchi conflitti sociali di potere si è sostituita una nuova contrapposizione: quella che vede in contrasto chi detiene la conoscenza e chi ne sta fuori. Dunque, non solo non si devono tenere distinte e separate le varie branche della conoscenza, ma occorre socializzare la conoscenza, rendendo protagonisti gli agricoltori e le popolazioni locali e costruendo dal basso strategie di sviluppo.

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