Albert Camus morì il 4 gennaio 1960 in un incidente d’auto a Villeblevin, nella regione della Borgogna – Franca Contea. Lo scrittore e filosofo francese era nato quarantasette anni prima a Mondovì, una cittadina sulla costa orientale dell’Algeria che aveva preso il nome dalla battaglia napoleonica svoltasi nell’omonimo comune piemontese. In quello spicchio di litorale nord-africano, tre generazioni di europei bonificarono in condizioni estreme le terre loro assegnate, le stesse che la Francia colonialista aveva sottratto agli arabi. E, come Camus, anch’essi, ad un certo punto, si trovarono esuli in Francia, in una terra non loro e in una patria che non si mostrava nemmeno troppo generosa.
Lo scrittore è sepolto nel piccolo cimitero di Lourmarin, un villaggio della Provenza, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Era finito lì sulle orme del suo professore di filosofia in Algeria, Henri Bosco, romanziere e poeta, la cui famiglia era originaria del Piemonte. Mettendo insieme una serie di tasselli per ricostruire il percorso identitario dell’intellettuale francese è facile ritrovare alcuni fili che legano luoghi italiani ad altri sparsi nel Mediterraneo. E per lui la civiltà europea era tutt’uno con la civiltà mediterranea.
L’IDEA CAMUSIANA DI FEDERALISMO
L’approdo in Francia significò per Camus la sua piena consapevolezza di essere europeo e di dover impegnarsi per il federalismo europeo. Mentre la Francia subiva l’occupazione tedesca, agli inizi degli anni Quaranta, egli aderì al gruppo Combat, politicamente molto vicino al Partito d’Azione italiano, e in clandestinità ne diresse il giornale. Il movimento Combat, fondato da Henry Frenay, una delle principali figure del federalismo proveniente dalla Resistenza, affermava fin dai suoi atti fondativi la necessità di creare una federazione europea, unita sul piano giuridico e politico, per garantire la pace e il progresso economico attraverso una democratizzazione delle istituzioni.
L’unificazione europea era vista dal socialista libertario Camus come una riforma che andava fatta subito, approfittando della debolezza degli Stati nazionali. Invece, nei lunghi anni che trascorsero dalla Liberazione (1945) al 1957, anno del Trattato di Roma, gli Stati pensarono esclusivamente a riorganizzarsi, arrivando ad accordarsi solo per una blanda unione economica europea. È per questo che quando si costituì la Comunità europea, lo scrittore non volle nemmeno commentare la notizia. Gli sembrò che la montagna avesse partorito il topolino.
LA CONFERENZA DI ATENE
È a seguito degli entusiasmi federalisti che, dal 26 aprile al 16 maggio 1955, Camus fece un viaggio in Grecia per tenere una serie di conferenze. L’unico incontro registrato è quello che si svolse il 28 aprile ad Atene, “Il futuro della civiltà europea”, organizzato dall’Unione Culturelle Gréco-Française con la partecipazione di alcune personalità di spicco nel panorama culturale greco dell’epoca. La Biblioteca dell’Istituto francese ad Atene pubblicò il resoconto della conferenza l’anno successivo. Ma ben presto questa pubblicazione cadde nell’oblio. Finché, dimenticati per decenni in uno scatolone all’ambasciata di Francia ad Atene, alcuni esemplari vennero recapitati alla figlia dello scrittore Catherine, che nel 2008 si decise a far inserire il testo nella nuova edizione della Bibliothèque de la Pléiade. La traduzione italiana è del 2012 curata da Alessandro Bresolin per i tipi di Castelvecchi.
Il colloquio è di estremo interesse per comprendere il pensiero politico di Camus. Egli era convinto che l’Europa dovesse unirsi da subito in un forte modello federale e non in una tiepida confederazione di Stati, soprattutto in un contesto mondiale segnato dall’internazionalizzazione dell’economia. Perciò, distinguendo tra totalità e unità, indicava in una unione fondata sul rispetto delle diversità e sulla misura, l’unica speranza per l’Europa.
LA DIVERSITÀ EUROPEA
Camus riteneva che «la civiltà europea fosse innanzitutto una civiltà pluralista. Voglio dire che essa è il luogo della diversità delle opinioni e degli ideali, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva a una sintesi. In Europa la dialettica vivente è quella che non porta a una sorta di ideologia al contempo totalitaria e ortodossa». Perché una civiltà viva, deve rispettare l’individuo. Di conseguenza la difesa del pluralismo sta alla base di una unità europea rispettosa delle diversità, ma anche di uno sviluppo tecnico e scientifico che non deve atrofizzare lo sviluppo umano e morale.
IL CONCETTO DI MISURA
A proposito della nozione di misura, il filosofo-scrittore la usava nell’accezione pervenuta dalla tradizione ellenistica: «come riconoscimento della contraddizione e come decisione di assumerla, qualunque cosa accada». Non è la soluzione moderata, precisava, ma «un metodo per affrontare l’analisi dei problemi che ci vengono posti e per avviarci verso un futuro tollerabile». In politica considerava la misura come elemento essenziale per equilibrare e limitare l’un l’altro i due princìpi che tendono fatalmente a cadere in contraddizione, quello di libertà e quello di giustizia. E a proposito del principio di libertà precisava: «La libertà senza limiti è il contrario della libertà. Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. Ma se si vuole esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. La libertà ha sempre avuto come limite, è una vecchia storia, la libertà degli altri. Aggiungerò a questo luogo comune che essa esiste e ha un senso e un contenuto solo nella misura in cui viene limitata dalla libertà degli altri. Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma un’onnipotenza, una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta. Il resto, la libertà senza limiti non viene vissuta o viene vissuta a spese della morte degli altri, al limite. La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata».
LA NECESSITÀ DI ISTITUZIONI COMUNI
Sulla concezione dell’unità europea, Camus non accettava l’idea di fondarla esclusivamente sulla collaborazione dei popoli. Egli affermava: «Se contiamo solo sulla buona volontà dei popoli europei, e dobbiamo contarci perché senza, evidentemente, non si può procedere, essa non basterà a farci progredire. Servono delle istituzioni effettivamente comuni democratiche». E a chi gli obiettava che a opporsi a tale traguardo ci sarebbe la diversità dei costumi e degli stili di vita dei popoli europei, faceva l’esempio della Francia: «Un marsigliese è certo più simile a un napoletano che a un abitante di Brest. C’è una grande differenza tra un abitante di Perpignan e uno di Roubaix. Ciò non toglie che l’unità della Francia è stata fatta e che Perpignan e Roubaix eleggono oggi uno stesso governo, buono o cattivo che sia». E aggiungeva: «La diversità ha gli stessi inconvenienti della libertà. Ci sono anche quelli della lealtà e dell’obiettività. Ciò non toglie che il mondo è progredito attraverso l’obiettività e la libertà e dobbiamo accettarne gli inconvenienti. Però, in verità, credo che le difficoltà degli imperi o dei continenti più solidi possono essere almeno altrettanto grandi, per ciò che riguarda il loro sviluppo futuro, di quanto non lo siano quelle generate dalla diversità europea».
E riferendosi alla rivoluzione scientifico-tecnologica che proprio in quegli anni avviava il suo salto verso la fase che oggi viviamo, Camus precisava: «Se la ricerca scientifica sta alla base del potere materiale, solo in un clima di libertà riuscirà ad essere davvero convincente, efficace e feconda sul lungo periodo. (…) Oggi il nostro problema sta soprattutto nell’adattare la nostra intelligenza alle nuove realtà che il mondo ci offre. Le ideologie su cui fondiamo le nostre vite sono in ritardo di cent’anni, ed è per questo che reagiscono così male alle innovazioni. Non c’è niente di più convinto della propria verità, di un’ideologia andata a male».
Oggi come reagirebbe lo scrittore-filosofo francese dinanzi alle condizioni in cui si trova l’Unione europea alle prese con il cinismo politico dei governi nazionali interessati a portare avanti il proprio sterile patriottismo, mentre imperversano le forze sovraniste? Ripeterebbe le stesse parole che pronunciò ad Atene nel 1955 e rimangono di una sconcertante attualità: «L’Europa è costretta da una ventina di lacci in un quadro rigido all’interno del quale non riesce a respirare».
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