Perché sono pochi gli agricoltori che partecipano alle iniziative culturali che riguardano i temi dell’agricoltura e delle campagne? Rispondere a questa domanda non è semplice perché si rischia di non essere compresi e di suscitare risentimenti. Ma è bene riflettere su questo problema anche a costo di apparire impopolari.
Molti agricoltori sono indifferenti alle iniziative che affrontano gli aspetti culturali e ideali dell’agricoltura e del mondo rurale perché hanno rinunciato ad essere innovativi. Si sono rassegnati a vivere nell’immobilità e nella stagnazione. Sono interessati esclusivamente a qualsiasi azione dei pubblici poteri che possa alleggerirli dei costi e dei pesi che sopportano le loro aziende. Una preoccupazione più che legittima in un Paese ancora pieno di disuguaglianze e che non assegna all’agricoltura il ruolo centrale che dovrebbe avere nell’economia e nella società.
Un assillo tuttavia insufficiente se non è accompagnato da un analogo cruccio nello spalancare porte e finestre all’innovazione. Essere imprenditori innovativi è l’esito di processi motivazionali che vanno stimolati, accompagnati e orientati verso le migliori pratiche, tenendo conto delle vocazioni e prerogative dei territori di appartenenza. È il frutto di legami comunitari, di beni relazionali, di fiducia da tessere costantemente. È l’esito di una guerra gigantesca da fare tutti i santi giorni contro la mentalità e la pratica assistenzialistica, che è causa ed effetto del clientelismo e dell’illegalità.
La capacità imprenditoriale è un valore che va coltivato come componente fondamentale di quell’aspirazione dell’uomo a incivilirsi, a elevarsi, mediante un percorso tortuoso che non ha mai fine per evitare di correre il pericolo di tornare indietro verso la barbarie.
È un valore civile che caratterizza chi non agisce mai per mero profitto e non intende mai la sua impresa semplicemente come una macchina per far soldi, ma come qualcosa che esprime la sua identità e la sua storia; la responsabilità di dare un apporto diretto alla promozione della giustizia; la gioia di donare qualcosa ad altri oltre il dovuto in una relazione di reciprocità incondizionata.
È ricerca continua dell’innovazione e del cambiamento che si contrappone energicamente alla semplice ripetizione della vita.
È conseguimento, consolidamento e superamento di un risultato, cioè di un esito certo e misurabile di un’azione che ne convalida l’efficacia.
È dinamismo, non è mai un punto di arrivo e neppure un plafond ormai assodato su cui si può sostare (e magari addormentarsi sugli allori).
È capacità di abbandonare ogni visione centralistica dello Stato e dell’economia (tutto deve arrivare dall’alto) e di praticare invece un federalismo democratico dal basso, come approccio alla costruzione di buone e sane relazioni di ognuno con le altre persone, con la comunità e con le istituzioni.
È anelito a conoscere altre culture e a mettere a disposizione la propria per produrre collaborazioni, processi di ibridazione, costruzione di novità. È superamento di ogni provincialismo, di ogni visione autarchica e neonazionalista per aprirsi alla relazione Italia-mondo, al multiculturalismo attivo, alla cooperazione tra le diverse comunità che vivono in Paesi differenti.
Non c’è alcuna contraddizione tra il recupero del legame con il territorio e l’internazionalizzazione dell’economia. Solo gli integralisti che difendono le proprie botteghe – in un mondo dove convive una pluralità di ethos del mercato e di modelli produttivi e di consumo – mettono in contrapposizione questi due elementi per tutelare i propri interessi particolari.
La capacità imprenditoriale è un processo civilizzante di relazioni interpersonali e di conoscenza per superare lo stato di cose esistente e immaginare il futuro con ragionevoli speranze.
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