Cosa non fa l’Italia dell’olio
Quanti sono gli imprenditori italiani che investono all’estero? Quante le imprese che coltivano olivi e gestiscono frantoi al di fuori dei confini nazionali? Quanti i confezionatori che acquistano oli dall’estero e ne curano la commercializzazione in ogni angolo del mondo?
La domanda che pongo a tutti coloro che mi stanno leggendo è molto semplice e richiede una risposta secca e senza esitazioni:
perché gli imprenditori italiani – olivicoltori, frantoiani, confezionatori – si fermano ai soli confini nazionali e molto spesso nemmeno si preoccupano di investire oltre la propria regione, oltre la propria provincia e addirittura oltre i confini del comune in cui ha sede l’azienda?
Già, la questione non è da prendere sotto gamba. È evidente che gli italiani parlino tanto di made in Italy e si cristallizzano nell’ambito localistico, incapaci di guardare oltre il proprio giardino.
A Foggia, in occasione della giornata di studio organizzata da Agromillora sull’alta densità in olivicoltura, ero intervenuto sul palco, in veste di moderatore dell’incontro, lanciando una provocazione che non ha suscitato alcun interesse, o per lo meno, così mi è parso. Sicuramente il presidente di Unaprol Granieri, seduto in prima fila, mi ha guardato con l’espressione di chi sta pensando “ma cosa dice questo?”
Ebbene, le domande che ho posto all’inizio di questo articolo ogni imprenditore che si occupa di olivicoltura o che gestisce un frantoio o che confeziona l’olio che va acquistando, se le dovrebbe pur porre.
Le ripeto.
Quanti sono gli imprenditori italiani che investono all’estero?
Quante le imprese che coltivano olivi e gestiscono frantoi al di fuori dei confini nazionali?
Quanti i confezionatori che acquistano oli dall’estero e ne curano la commercializzazione in ogni angolo del mondo?
Un dato, a partire da queste domande, in realtà lo abbiamo, ma non lo riporto qui perché resta comunque un dato lacunoso e incompleto, e non vorrei certo diffondere qualcosa di indefinito.
Anche per questo approfitto per chiedere a chi legge di fornirmi informazioni al riguardo. Non è facile, ma si può in qualche modo tentare. Non è facile perché c’è una forma di strisciante e irrisolta reticenza, dovuta a una forma di difesa, per non essere attaccati, per non essere accusati di non tenere al proprio Paese.
E sta proprio qui l’errore. Cosa non fa l’Italia dell’olio per imporsi sulla scena internazionale? Perché non agisce? Perché si ha paura o diffidenza nell’investire all’estero?
Perché un italiano non può investire in Tunisia, produrre olive, frangerle e acquistare anche oli prodotti da altri e venderli. Fare gli imprenditori, insomma.
Perché un italiano non può investire in altri Paesi africani, o nel resto dell’Europa, o in altri continenti?
Perché un italiano non può commercializzare olio straniero, in Italia e altrove, senza sentirsi in colpa?
Io ammiro quegli italiani – e ne conosco diversi – che sono attivi all’estero. Peccato che debbano farlo senza troppo apparire.
C’è tutta una Italia che non capisce, e non può capire, perché troppo invischiata in luoghi comuni troppo comodi come il “Km 0” per non prendere posizione e assumere per davvero i panni dell’imprenditore. Il grosso limite dell’Italia è di non avere spirito di intraprendenza. Un limite troppo grosso in una società globale come quella in cui oggi si vive.
La foto di apertura è di Olio Officina
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