Economia

Crisi di rappresentanza agricola

L’agricoltura ne soffre tanto. Come ne potremo uscire? Tale crisi inizia nella seconda metà degli anni Ottanta. Le organizzazioni non si mostrano all’altezza e per non mettersi in discussione si pongono sulla difensiva, mostrando la propria fragilità e obsolescenza. Cosa è accaduto con il fallimento della Federconsorzi?

Alfonso Pascale

Crisi di rappresentanza agricola

Le dichiarazioni del premier Matteo Renzi a Vinitaly sull’esigenza di abbattere il muro della burocrazia e sulle responsabilità non solo della politica ma anche delle organizzazioni di categoria nell’aver elevato tale muraglia che opprime l’agricoltura italiana sono un buon segnale. Ma per trovare i rimedi bisogna comprendere bene da dove arriva questo tarlo con un indagine di lungo periodo.

La crisi della rappresentanza agricola incomincia nella seconda metà degli anni Ottanta, quando il presidente della Comunità Europea Jacques Delors firma il documento Il futuro del mondo rurale. Per la prima volta viene posta in modo esplicito l’esigenza di rivedere il patto tra l’agricoltura e la società alla luce delle nuove condizioni che nel frattempo si sono determinate in Europa e nel mondo.

L’ingresso della Grecia, della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda nella CEE aveva acceso i riflettori sulle aree con arretratezza strutturale. E ci s’interroga sulla necessità di integrare le diverse politiche per conseguire l’obiettivo di sostenere un continuum di attività locali caratterizzate da una forte componente rurale. “Le nozioni di spazio o di mondo rurale – recita il documento Delors – vanno ben oltre una semplice delimitazione geografica e si riferiscono a tutto un tessuto economico e sociale comprendente un insieme di attività alquanto diverse: agricoltura, artigianato, piccole e medie industrie, commercio, servizi”. L’uso del termine “tessuto” ben configura le imprese nello spazio rurale, che puntano su attività economiche diversificate, capaci di sostenersi e di produrre reddito e occupazione, inserendosi armoniosamente nel territorio come tanti fili, dotati di individualità, che s’intrecciano in una trama comune.

Dal sostegno dei prezzi agli aiuti diretti

Queste riflessioni non si traducono immediatamente in scelte operative. Ma con il crollo del Muro di Berlino e l’accentuarsi dei fenomeni di globalizzazione, l’Europa si vede costretta a ridurre le politiche protezionistiche. E così dal sostegno dei prezzi si passa al sostegno dei redditi, erogando aiuti compensativi riferiti agli ettari coltivati e ai capi di bestiame allevati. Si avvia così un processo di riforma della PAC che a fasi di cambiamento alterna fasi di stagnazione senza superare, tuttavia, l’impostazione protezionistica originaria. Addirittura si cominciano a distribuire gli aiuti senza più agganciarli alla produzione. Per gli agricoltori questi mutamenti comportano una vera e propria rivoluzione copernicana.

A seguito di questo salto epocale avvenuto nelle politiche agricole, le organizzazioni e le istituzioni del nostro Paese, edificate nel Novecento in funzione delle politiche protezionistiche, non si mostrano all’altezza della sfida e per non mettersi in discussione si pongono sulla difensiva. Anziché far avanzare il processo di riforma per ottenere una radicale modifica dell’intervento pubblico uscendo definitivamente da un’impostazione protezionistica e puntando sullo sviluppo rurale e sull’innovazione, le organizzazioni sociali svolgono un ruolo di conservazione delle posizioni di rendita acquisite nel tempo. Sicché incominciano, nel loro insieme, a mostrare tutta la propria fragilità e obsolescenza, che potranno nascondere o addirittura negare trasformandosi, nel frattempo, in strutture burocratiche per cogestire l’erogazione degli aiuti comunitari agli associati, con le risorse finanziarie della stessa PAC.

Nelle organizzazioni agricole non si guarda più allo sviluppo delle campagne nella loro complessità e all’interazione tra queste e l’insieme della società, ma prevale una dimensione meramente economicistica e produttivistica dell’agricoltura. La stessa formazione dei quadri risente di questa metamorfosi e il livello culturale complessivo dei dirigenti e dei tecnici si abbassa notevolmente. Il passaggio al sostegno al reddito viene visto da tutte le organizzazioni come un pretesto per diventare organismi prevalentemente strutturati ad erogare servizi agli aderenti. E così queste abbandonano ogni altro disegno più ambizioso di rappresentare l’insieme di una ruralità che si è del tutto trasformata.

Il referendum per l’abolizione del ministero delle Politiche Agricole

In Italia, le conseguenze dell’evoluzione delle politiche comunitarie vengono a intrecciarsi coi riflessi interni dell’implosione dell’intero comunismo sovietico: cade finalmente la conventio ad exludendum e il Pci, a prezzo di una grave divisione interna, ne trae immediatamente le conclusioni, cambiando nome e statuto.
A tale vicenda fa seguito un altro fenomeno epocale benché solo per noi: nel 1992 esplode la vicenda giudiziaria e popolare di Mani pulite che conduce a un esito che solitamente si associa a traumi ben più gravi, a guerre o rivoluzioni: la scomparsa dei due grandi partiti governativi dei trent’anni precedenti, cioè la Dc e il Psi.

Le campagne sono profondamente coinvolte nei nuovi processi perché la rappresentanza del mondo agricolo è parte costitutiva del sistema politico. Innanzitutto, il livello istituzionale è fortemente coinvolto in un dibattito che vede sullo sfondo anche una prospettiva federalista.

La contrapposizione che si era determinata – fin dagli anni Settanta – tra le Regioni e lo Stato centrale sulle competenze in materia di “agricoltura” si era espressa con numerosi ricorsi alla Corte Costituzionale in ordine a diverse tematiche. Raggiunge l’apice nel 1992 con la richiesta di un referendum popolare per deliberare l’abrogazione degli atti legislativi, emanati nel 1929, istitutivi del ministero dell’Agricoltura. L’iniziativa referendaria, avanzata da cinque Regioni ed a cui successivamente aderiscono altre undici, ha un risultato largamente favorevole per i proponenti.

Tale esito, tuttavia, non provoca una riforma dell’assetto istituzionale in agricoltura. La legge di riordino delle competenze, che di lì a poco viene emanata per colmare il vuoto normativo, si limita a cambiare il nome del dicastero in ministero delle Politiche agricole e forestali e ad assegnare maggiori risorse alle Regioni. Un’occasione mancata per rafforzare i supporti alle funzioni nazionali di indirizzo e coordinamento e di presidio delle sedi dove vengono definite le politiche comunitarie e stipulati gli accordi internazionali.

Nelle organizzazioni agricole prevale la preoccupazione di adattarsi nel modo meno arrischiato allo scenario politico che si va delineando. L’eccessiva prudenza le porta perfino al disimpegno nel referendum per l’abolizione del ministero dell’Agricoltura. Colte di sorpresa dall’esito del voto, saranno poi le prime a sostenere per il nuovo ministero la soluzione gattopardesca del “tutto cambi perché nulla cambi”. In un mondo vertiginosamente in moto, tutte si spendono non già per adeguare i propri indirizzi programmatici e organizzativi e accompagnare da protagoniste le novità, ma solo per conservare rendite di posizione e privilegi. Sicché, le campagne e gli agricoltori vengono abbandonati sempre più a se stessi.

Il fallimento della Federconsorzi

Il dissolvimento della Dc accresce ovviamente lo stato di sbandamento in cui versa la Coldiretti alle prese con la grave crisi della principale struttura economica che essa domina. Fallito ogni tentativo di assicurare una boccata d’ossigeno alla Federconsorzi con fondi pubblici, le banche si vedono fortemente esposte e non più garantite politicamente. Sicché bloccano le linee di credito ed è la fine. Le cause del fallimento della Federconsorzi sono da ricondurre all’incapacità del gruppo dirigente di affrontare tempestivamente le questioni politiche, gestionali e finanziarie, nonostante forti sollecitazioni da parte del management e del mondo agricolo. La gestione commissariale e le inchieste giudiziarie portano alla luce un indebitamento per 4 mila miliardi nei confronti del sistema bancario e dei fornitori.

Numerosi consorzi agrari sono indebitati nei confronti della Federazione per oltre 2.500 miliardi. L’opera di risanamento porta alla liquidazione dell’organismo, mentre difficoltosa si rivela la sistemazione dei rapporti coi grandi creditori, riunitisi nella Società Gestione per il Realizzo (Sgr), che rileva in blocco tutte le attività della Federazione. Il comitato dei liquidatori, guidato da Pellegrino Capaldo, dirigente dell’ex Banca di Roma, pone sul mercato strutture, impianti, aziende per rientrare quanto più possibile e nei tempi più brevi dei maggiori crediti. Inizia la dispersione dello storico patrimonio della rete dei servizi nelle campagne, cresciuta attorno ai consorzi agrari.

Gli appetiti si scatenano. Acquistare le aziende, il patrimonio fondiario ed edilizio della Federazione a pochi soldi diviene un boccone prelibato per imprenditori, finanzieri, trafficanti d’ogni tipo. Si muovono poteri forti e deboli per gestire al meglio l’affare. Viene meno un patrimonio imponente di strumenti economici, la cui mancanza negli anni decisivi della progressiva apertura dei mercati priva l’agricoltura italiana di una parte rilevante delle strutture organizzative necessarie per competere, con minori rischi e più opportunità, con altri Paesi meglio attrezzati del nostro.

Vent’anni dopo il fallimento, la Federconsorzi farà ancora parlare di sé. I commissari governativi, che si susseguiranno, la terranno in vita per fare in modo che il vecchio organismo, rianimato dai pochi consorzi agrari sopravvissuti, possa continuare ad avere titolo per rivendicare i crediti nascenti dalle gestioni degli ammassi. Uno strascico poco edificante che la dice lunga su come vecchi vizi siano duri a morire.

L’agricoltura dei cittadini: verso una nuova rappresentanza

Le organizzazioni agricole potranno evitare il declino definitivo se comprenderanno che l’agricoltura non è più un mero settore produttivo ma il crocevia di problemi complessi che vedono al centro i cittadini in quanto tali.
Gli agricoltori italiani non si sono mai considerati un mondo a sé stante, autoreferenziale, chiuso a riccio. Hanno sempre combattuto questo pregiudizio nei loro confronti. I contadini italiani hanno sempre voluto abitare nelle città e nei centri abitati e dalle città si “costruiva” la campagna. La percezione e l’auto-percezione dell’agricoltura come “mondo a parte” è stata una costruzione politica – a fini di controllo sociale – che non ha mai corrisposto alla realtà. E che però ha finito per trasformare, in ultima istanza, quello che era solo un disegno politico – per esercitare un dominio e ottenere un consenso – in qualcosa che ha dato forma al reale e in cui una parte degli stessi agricoltori hanno finito per immedesimarsi.

Con la modernizzazione dell’agricoltura e poi con la fine del mito industrialista si è avviata la “nuova ruralità”. L’agricoltura costituisce solo una parte minoritaria dell’economia rurale che si diversifica in molte attività produttive e di servizi. E l’urbano e il rurale incominciano a sovrapporsi, sul piano culturale e su quello socio-economico, fino a superare completamente ogni distinzione. L’intera società italiana è stata ed è tuttora protagonista di un processo che vede i vari “pezzi” integrarsi totalmente tra di loro.
Ma questo fenomeno complesso – che solo pochi studiosi, come Corrado Barberis e i ricercatori dell’INSOR, hanno studiato a fondo – oggi è interpretato in modo del tutto distorto. Prevale l’idea – indotta da una mal digerita cultura ambientalista importata dai paesi anglosassoni – che con la “nuova ruralità” stia nascendo un’agricoltura naturale, non contaminata, una nuova arcadia, distinta e separata, a cui aggrapparsi per poterci difendere dai rischi della modernità e della globalizzazione. Un nuovo e più pesante pregiudizio viene così a gravare sull’agricoltura come un macigno.

Come ne potremo uscire? Ne usciremo se riscopriremo il valore della fraternità civile che non ha niente a che vedere con la fraternità di tipo religioso. Va rivitalizzato il valore di quella fraternità primordiale che ha legato le prime comunità umane quando, con la nascita dell’agricoltura 10 mila anni fa, si sono insediate in un determinato territorio. Comunità e agricoltura nascono insieme, si mantengono a vicenda; non c’è comunità senza agricoltura e non c’è agricoltura senza comunità. Attraverso la fraternità civile, dobbiamo riconoscere le ragioni degli altri, riscoprire il valore del pluralismo degli ethos del mercato e dei modelli, a cui si può ovviamente aderire, ma si aderisce singolarmente o in gruppi. Non si deve mai pretendere che le istituzioni, lo Stato e le politiche scelgano un modello rispetto ad un altro. Bisogna che i modelli vivano nella pluralità, nel rispetto vicendevole e nella reciproca contaminazione, dialogando. Mi pare essere questo il senso più profondo dell’ottimo “manifesto” per il rilancio del settore oleario promosso dall’Informatore Agrario e da Olio Officina Magazine (QUI).

Solo in questo modo si potranno abbattere le muraglie burocratiche – elevate nel tempo dalle istituzioni e dalle organizzazioni per difendere rendite di posizione e privilegi – e, così, soddisfare le nuove domande di rappresentanza. Solo in questo modo ci si potrà confrontare sulla base di una progettualità e non solo dei rapporti di forza. E le relazioni tra le organizzazioni e le istituzioni si potranno impostare in modo trasparente. E non più nel classico modo che permette ai più furbi di assicurarsi prerogative monopolistiche di tipo corporativo.
Se si avvierà una fase di questo tipo, allora forse potrà rinascere una nuova rappresentanza dell’agricoltura.

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