Economia

Olio italiano, dove sarà la verità?

Come si spiega il cospicuo e repentino decremento delle rese? Una lucida analisi della forza produttiva italiana mette in luce le contraddizioni tra dati Istat e Agea. Un balletto di cifre che non ci onora. Ci vorrebbe una mappatura satellitare delle piante, mentre resta tuttora irrisolta la questione dei quantitativi di oli non extra vergini

Luigino Mazzei

Olio italiano, dove sarà la verità?

Traendo spunto dalle interessantissime argomentazioni prodotte da Massimo Occhinegro negli articoli “Un’operazione trasparenza per l’olio da olive”, e, piu recentemente, da Gianluca Ricchi in “Troppe infamie sull’olio”, colgo l’occasione per sottoporre una mia riflessione, cercando di fare il punto sull’attuale situazione quanti-qualitativa in Italia, in relazione alla nuova campagna olivicola 2013/14.

A proposito di produzione e qualità. Non vorrei entrare nel merito delle sterili polemiche che affliggono, ormai da più di vent’anni, il mondo oleario italiano tra il comparto produttivo e quello del commercio e del confezionamento, ma è assolutamente necessario far chiarezza sia sulle effettive quantità che si producono in Italia, sia sul livello qualitativo dello stesso olio prodotto.

Non è possibile che ancora nel 2013 siamo a commentare il balletto delle cifre fornite da Istat e Agea – da leggere quanto ha scritto Ricchi su Olio Officina – senza contare poi (e lo evidenzio qualora qualcuno non se lo fosse mai chiesto) quale o quali eventi catastrofici, ambientali, abbiano sensibilmente compromesso le produzioni successive a quelle dichiarate nelle campagne 2001/02, 2002/03, 2003/04 e 2004/05 (media dei 4 anni: 713.000 tonnellate), l’ultima delle quali arrivata a sfiorare le 900.000 tonnellate, fino poi a giunegere alle attuali 540.000 tonnellate, media degli ultimi 4 anni (2008-2011,secondo l’Istat) e 380.000 tonnellate (secondo Agea) nonostante, nel frattempo, si sia realizzato un incremento di superficie/ettaro investita a olivo. Si è forse verificato un cospicuo decremento – inusuale e repentino delle rese – o forse si è materializzato un improvviso e generalizzato disinteresse per la raccolta?

E ancora: come mai, visto l’ampia insoddisfazione della domanda interna che ci costringe a importare dall’estero, la risposta sia stata un sensibile decremento produttivo? A queste domande, direi forse banalmente, che una risposta scientifica ed esaustiva ce la potrebbe fornire un’accurata mappatura satellitare delle piante, come è stato fatto in Spagna, del resto, il cui Ministero dell’Agricoltura è oggi in grado, ma già lo fa da alcuni anni, di fornire MENSILMENTE agli utenti, i dati di produzione di ogni singolo frantoio, le uscite per l’export e, per il mercato interno, le eventuali importazioni e le giacenze presso la produzione e le aziende di confezionamento.

Questa, a parer mio, significa TRASPARENZA, ma ancor prima, una strategica e lungimirante arma al servizio degli operatori del mercato. Detto ciò, l’altro aspetto che merita un accurato approfondimento è l’accertamento del livello qualitativo di cui disponiamo, e mi spiego: quanto, percentualmente, delle 540.000 tonnellate (fonte Istat) o 380.000 tonnellate (fonte Agea) sono lampante, quanto vergine e quanto extra vergine?

Non mi risulta esserci, nella letteratura specializzata, dati di riferimento specifici che rimandino a elementi storici e statistici dettagliati. Posso solo esprimere una mia personale valutazione costruita sulla base storica di dieci anni di analisi di conferimento di olio di circa 120 frantoi sociali dislocati in tutta Italia, che potrei quantificare in una cauta misura del 35-40% tra lampanti e vergini, ma, all’epoca, mi riferisco agli anni ’80-’90, non era ancora in vigore il panel test, e il limite di acidità per gli extra vergini era l’1% e non lo 0,8 %.

Mi rendo conto che non è un dato scientificamente provato, quindi facilmente confutabile, ma sicuramente molto prossimo alla realtà, per cui è facile concludere, sia partendo dai dati Istat, sia da quelli dell’Agea, che il quantitativo di extra vergine prodotto potrebbe valere da 325.000 tonnellate circa nel primo caso, a 228.000 tonnellate nell’altro.

E’ francamente poco serio commentare due cifre così palesemente distanti, ma comunque, in entrambi i casi, sufficienti a giustificare il perchè di importazioni certamente imponenti, ma in ogni caso necessarie a soddisfare la domanda interna.

A tutelare e garantire l’unicità dell’extra vergine italiano nei confronti della quantità più che doppia di olio importato, interverrà il decreto “salva olio italiano” (legge Mongiello) che restringerà i limiti per gli alchilesteri dell’extra vergine del 50% rispetto ai valori di legge attuali.

Sicuramente, per arrivare a una simile proposta, immagino si sia fatto uno screening su un numero ragionevole di campioni ripetuti per almeno due o tre campagne olearie, e valutato attentamente quanto extra vergine italiano debba essere declassato a vergine onde evitare il rischio di un clamoroso autogoal.

Se da una parte concordo nel riconoscere agli alchilesteri un valido indice per la qualità e freschezza di un olio, dall’altra dubito fortemente che possa essere utilizzato come marker per l’olio italiano. Immagino, infatti, che il legislatore sia al corrente che in Tunisia o in Spagna, sopratutto per l’olio extra vergine di oliva di varietà Arbequina, questi limiti più ristretti possano essere tranquillamente rispettati, così pure per l’extra vergine di provenienza Grecia.

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