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Il Papa americano? No, sudamericano: el Papa pampero

I ricordi personali di chi sia stato parroco in un villaggio nella Pampa, poi vescovo in una conurbazione in cui si dilatassero le miserabili favelas dei dannati della terra, ai cui margini, oltre barriere invalicabili, sorgessero le ville del privilegio sociale, economico, culturale, e, al di là di un orizzonte sterminato, oltre spazi continentali, si levassero cime nevose che la fantasia suggerisse sorvolate dal condor, non sono, palesemente, il futuro del Pianeta

Antonio Saltini

Il Papa americano? No, sudamericano: el Papa pampero

Dedicato a Lucetta Scaraffia, che non conosco,

 che conto di incontrare, in questa vita

                                                                                            o, dati i convincimenti comuni,

                                                                                                                               in quella successiva

È in libreria, fresco di inchiostro, come si usava dire in tempi lontani, l’ultima biografia dell’attuale pontefice. Chi scrive sarebbe corso al libraio più vicino sperando di reperire l’ultima copia disponibile: ottuagenario, importunato da più di uno dei fastidi che non allietano gli umani della classe di età cui appartiene, né disponendo di governante o cameriera alla quale demandare l’incombenza, ha rinviato il proposito. Riflettendo, peraltro, seduto allo scrittoio, in pugno l’Avana che, antico escursionista, si è sempre concesso con circospezione, ha riflettuto sul titolo: cogitabondo per lunghi minuti, ne ha rilevato l’equivocità: nel parlare comune, a tavola o al bar, l’aggettivo “americano” designa, univocamente, il popolo degli Stati Uniti o uno dei cittadini del medesimo. Definire “americano” un messicano costituisce già inosservanza di una convenzione consolidata, né ripara all’incongruenza la definizione del Rio come grande: per quanto grande, quale, in termini idrologici, è, il medesimo non assurge al top delle classifiche mondiali, quanto sarebbe necessario dovendo assolvere al compito di separare due paesi, due società, due civiltà che più lontane, estranee, incomparabili non potrebbero essere. Tanto da venire collocate, nell’immaginario collettivo, piuttosto su due continenti, Nord e Sudamerica, che sul medesimo, il più settentrionale dei due.

La distanza della Confederazione a stelle e strisce della patria di sua Santità è, peraltro, smisuratamente maggiore di quella che separa la riva americana da quella messicana del medesimo Rio, eppure la distanza geografica è assolutamente irrisoria rispetto a quella tra le società collocate sulle rive opposte, le loro culture, i loro costumi: termina su una sponda, infatti, la società e la cultura che possiamo definire centroeuropea, la cultura costituente l’eredità della Francia, della Germania, della Gran Bretagna e dell’Italia, inizia, sull’altra, il mondo ispanico, contrassegnato da una cultura i cui caratteri precipui, frutto di vicende storiche peculiari, sono diversi, radicalmente diversi, da quelli della società che si definisce, genericamente, europea, la cultura, cioè, la cui prima matrice può riconoscersi nel Rinascimento italiano, l’evoluzione della quale, e la cui “età d’oro”, si sono manifestate, nei secoli successivi, nel confronto, o, al mutare dei tempi, nello scontro, non di rado cruenta, tra Francia e Gran Bretagna, con l’antagonismo, contemporaneamente, verso l’Impero che, ai tempi di Vienna capitale, si definiva, onorando la tradizione, Romano, con capitale Berlino mutava nome, definendosi Reich, e, tragicamente, anche cognome, definendosi Drittes (Terzo), con le conseguenze a tutti crudamente note.

Chiunque, in possesso delle cognizioni essenziali sulla storia delle società europee, rifletta sulle peculiarità civili e culturali delle regioni del Nuovo Mondo colonizzate dalle potenze di quello Vecchio, non può non attribuire al Rio un’ampiezza geopolitica assolutamente maggiore a quella del suo greto, separando il fiume due società che più lontane, civilmente e culturalmente, non potrebbero essere, le società di matrice anglofrancese e quelle di matrice ispanica, la matrice alla quale è congruo ascrivere anche la società portoghese. Le prime, in termini quanto si voglia semplificati, alle origini monarchie assolute, si sarebbero convertite, dapprima, in monarchie costituzionali, quindi in sistemi democratici, fondati sulla separazione dei poteri costituzionali, il caposaldo fissato ad assicurare ai cittadini la garanzia di non poter essere perseguiti che da un magistrato nominato dal sovrano, e l’eguaglianza delle possibilità di perseguire, usando le proprie capacità, la maggiore ricchezza, e l’altrettanto eguale facoltà di mirare, se in possesso, ancora, di capacità adeguate, ai gradi più elevati dell’istruzione, presupposto di ogni affermazione professionale. Le seconde teatro, con ineluttabile ripetitività, della successione, alle formule di governo democratiche, di poteri autoritari, e contrassegnate da disuguaglianze sociali costituenti non tanto gamme di redditi diversi, quanto vere divaricazioni di casta, quindi insuperabili, o di superamento difficile e, sistematicamente, insicuro. Non è meno inquietante della prima constatazione quella che si impone come seconda, e complementare: il rilievo che, nelle società di matrice ispanica, l’affermarsi di autoritarismi illiberali non costituisca retaggio di un passato di cui possa reputarsi in corso il superamento, quanto, piuttosto, il vizio congenito che, dopo il periodo felice in cui il potere dell’ultimo caudillo possa essere apparso superato, esso si riproponga, in circostanze di difficoltà interne o internazionali, con la medesima virulenza con cui si era mostrato in tempi reputati, suadente chimera, remoti.

Riconoscendo, nelle vicende dell’anima del Vecchio Continente, il ruolo capitale della fede cristiana, non si può mancare di rilevare come, su entrambi i versanti dei Pirenei, la medesima fede cattolica avrebbe dovuto misurarsi, in tempi diversi, in confronti durissimi con concezioni irreligiose, a settentrione, ad esempio, ai tempi dei furori giacobini, i tempi della ghigliottina, a mezzogiorno a quelli dell’eroe anarchico Buenaventura Durruti, che avrebbe assassinato, a Saragozza, il cardinale Soldevilla y Romero, la prodezza per la quale l’autore avrebbe vantato i titoli di eroe della lotta per l’umana libertà, fino al giorno dell’assalto, nei giorni dell’ispanica Revolución, all’Università di Madrid, quando gli avrebbe sparato, autentico eroe comunista, alle spalle, uno dei sicari demandati, da Jossip Stalin, dell’annientamento degli anarchici spagnoli, manigoldo dell’accolita che il ”Piccolo Padre” della Santa (olim) Russia aveva affidato al più intemerato dei propri sicari, Palmiro Togliatti, amante della Signora che sarebbe assurta a presidente dell’italico Parlamento, la gentildonna che un sommo storico dell’arte italiana, intransigente membro del Partito d’Azione, Carlo Ludovico Ragghianti, avrebbe definito, manifestando la suprema considerazione, la “Regina Madre” dell’italico bordello. Sarebbe stato, così, uno dei sicari del proconsole rosso ad assassinare l’assassino, anarchico, del Cardinale: piccolo, ma eloquente, saggio della tempestosa furia delle passioni ispaniche.

Chi scrive reputa che il momento dal quale lo iato assume caratteri di categorica immutabilità, quando, cioè, la divaricazione tra culture non tanto diverse quanto opposte, si sarebbe imposto come irreversibile, debba identificarsi al tempo in cui, ai primi trionfi, nel crepuscolo del Cinquecento, della moderna coscienza scientifica, Roberto Bellarmino, sommo teologo, magistrale matematico, autore della prima, e definitiva, teologia delle relazioni tra scienza e fede, avrebbe enunciato, in termini inequivocabili, la propria dottrina del valore, di fronte alla teologia cristiana, delle scoperte scientifiche che stavano moltiplicandosi, confutando i principi dell’ontologia aristotelica, fino ad allora considerati segmento inscindibile delle conoscenze correlate alla teologia fondata sui Vangeli. Riconoscendo, nei postulati del grande teologo, assunti di validità definitiva, se ne può verificare l’intatta validità, quasi tre secoli più tardi, nell’opera di Louis Pasteur, per la creazione della microbiologia il protagonista più insigne della scienza sperimentale dell’Ottocento, la cui concezione epistemologica fissa, lucidamente, l’assioma capitale sui rapporti tra conoscenza scientifica e fede religiosa nel riconoscimento dell’assoluta diversità, e dell’altrettanto assoluta indipendenza, tra gli orizzonti delle discipline sperimentali e quelli della riflessione teologica.

E’ proprio l’incapacità a distinguere le sfere diverse che l’intelletto umano è chiamato ad esplorare, a separare, radicalmente, la storia della cultura a settentrione e di quella a meridione dei Pirenei, su entrambi i versanti, per una lunga serie di secoli, due culture di profonda ispirazione cattolica, su un versante della codillera organicamente, e proficuamente, convivente con la cultura scientifica, sull’altro assolutamente estranea, seppure non ostile, siccome la storia di Spagna non annovera uno solo dei grandi nomi della scienza europea, nomi tali da essere inclusi nel novero che comprende l’italiano Galilei, il britannico Newton, il francese Descartes, lo svedese Linnaeus, il boemo Mendel, il russo Mendeleev, l’ancora francese Pasteur, il tedesco Planck. Con paradossale coerenza, non potendo vantare alcun grande fisico, biologo, farmacologo, la cultura ispanica non ricorda neppure alcun nemico della scienza, verosimilmente perché la nascente scienza sperimentale non conobbe, alle proprie origini, nemici, che si riproducessero, tossica fungaia, come si sarebbero moltiplicati, con la capacità di proliferazione del Rattus norvegicus, dopo più di qualche secolo di trionfi sperimentali: penso agli applausi, cui avrebbero partecipato tutti gli strati dell’italica plebe, tributati all’insigne sociologo, diplomato, manco a dire, a Trento, che dell’orda viene universalmente riconosciuto, ai giorni nostri, duce supremo: ancora un’analogia con l’etologia del Rattus. Singolarmente, ma, forse, non incomprensibilmente, la chiassosa kermesse, il cui frastuono continua, da oltre un decennio, a moltiplicare i decibel, si è avvicinata al diapason in sincronia a quello che può, sensatamente, essere reputato il maggiore sussulto, nell’antico Occidente, della coscienza collettiva al trapasso tra il secondo ed il terzo millennio, il ripudio, da parte delle folle europee, delle antiche radici cristiane.

Se i dotti del Medioevo erano stati, insieme, filosofi, teologi, naturalisti, e se è stato, progressivamente, il progredire delle conoscenze a separare, sempre più inequivocabilmente, le scienze sperimentali da quelle che, usando un eloquente vocabolo classico, possono identificarsi come espressioni dell’humanitas,  fissando l’attenzione ad un secondo confine, quello che, allo spartiacque della cordillera pirenaica, separa la cultura centroeuropea da quella ispanica, costituirebbe mero esercizio di fantasia asserire che se un giovane, francese, tedesco, italiano, di famiglia di sufficiente benessere, possa reputare necessario dovere scegliere tra una facoltà scientifica ed una compresa nella sfera che include le lingue e la giurisprudenza, una scelta che destina chi la assuma a regioni culturali differenti, compiendo una scelta analoga, un figlio della Piel de Toro, di cui la Spagna vanta la forma, resta, esistenzialmente, un ispanico: inamovibili, in testa, il toro, i banderilleros, il matador.  All’asserzione è, palesemente, sensato ribattere che anche i tifosi del pallone, negli stadi britannici, tedeschi, olandesi, si accendono, urlano, possono trascendere, e, ove le tifoserie non siano collocate su tribune distinte, prodursi nell’impiego delle mani: circostanza in cui, se il commissario di pubblica sicurezza non abbia disposto accortamente i propri uomini, può verificarsi la rissa, imponendo, magari due-tre ricorsi (felicemente non ricoveri) in ospedale. Ma pugni e calci non fanno parte, intrinsecamente, del copione, mentre a plaza de toros la sangre è parte intrinseca dello spettacolo, uno spettacolo che può offrire anche la sangre del matador. Chi scrive ricorda la superba interpretazione, da parte di Antony Quinn, del gladiatore che, al pollice verso del sovrano, rifiuta di spegnere la vita dell’avversario, sapendo che il rifiuto costerà la sua: la scena ricordando la quale è indotto, dal proprio senso etico, a ritenere che il sangue, il sangue sulla sabbia dell’arena, faccia, ineludibilmente, la differenza, che è, altrettanto inequivocabilmente, differenza di civiltà.

Ma l’asserzione che la civiltà della corrida sia civiltà diversa da quella definibile, banalmente, del pallone, può essere reputata pronuncia oppugnabile, lo riconosce chi ha assistito, nella vita, ad un solo incontro, tra la squadra della propria città, ricorda, e un’altra formazione di serie B: a papà, avvocato, il Modena football club aveva affidato la causa per il pagamento di un’ala destra, o sinistra che fosse, e il biglietto era stato compreso nella parcella. La partita, spettacolo alieno dalla corrida: l’asserzione può essere reputata controvertibile, ma può essere suffragata, peraltro, da una comparazione, tra le due culture evocate, trasferendo il confronto in sfere estranee a quella in cui grandeggiano toreador e goleador, tanto da imporre la supposizione che, dimostrandosi duplice, l’alterità imponga di riconoscere, tra le due consociazioni umane, una scriminante di tale entità da costituire autentica “faglia” di civiltà. Di quella faglia è possibile verificare l’ampiezza menzionando, tra le altre possibili, quella proposta dall’elenco dei premi Nobel nelle discipline scientifiche. Al quale è sufficiente dirigere una sola occhiata per verificare l’abisso che separa due paesi geograficamente non lontani, l’Inghilterra e la Spagna. Tra chimici, genetisti, fisiologi, nella sfera animale o in quella vegetale, ricercatori nella sfera medica, la prima annovera più premiati di quanti si totalizzino sommando alla patria della civiltà spagnola l’intero continente che ne impiega la favella, gli arcipelaghi, isole e isolotti che lo attorniano: il confronto è schiacciante, inoppugnabile, e definitivo.

Chi scrive è ammiratore appassionato di Miguel de Cervantes y Saavedra, il cui romanzo reputa, come l’hanno reputato, dalla prima edizione, milioni di lettori, migliaia di critici, decine di musicisti, drammaturghi, l’opera narrativa suprema dell’intera narrativa mondiale, creatura prodigiosa siccome, componendo, nel proprio eroe, ingenuità, saggezza, e l’inclinazione, sempre incombente, alla follia, propone una figura di cui nessuno tra i grandissimi russi, per il medesimo devoto di romanzi e romanzeri la prima scuola narrativa al mondo, ha proposto l’equivalente. Il giudizio di chi scrive, formulato in età ginnasiale, ribadito da letture posteriori, corrisponde, come appreso recentemente, al risultato di un’indagine realizzata da un’istituzione culturale interpellando letterati di nazionalità diverse. Ma è stato proprio un economista spagnolo, in una conversazione tanto appassionata quanto inquietante, a dimostrarmi che l’eroe che mi ha incantato, che amo e che amerò sempre, è il nemico giurato di ogni manifattura, commercio e scienza, i tre pilastri capitali di ogni società civile. Compie prodezze inaudite per distruggere, o irridere, le uniche apparecchiature del tempo: si getta, a sprone battuto, contro i mulini a vento, considera le gualchiere ad acqua, le macchine impiegate, al tempo, tanto dall’industria del panno quanto da quella della carta, quali congegni infernali, reputa rozzi selvaggi i mulattieri che, in un paese dalla rete stradale classificabile, rispetto a quella di Roma repubblicana, relitto preistorico, provvedono ai trasporti costituenti esigenza essenziale di ogni società civile, dimostra stupore e incredulità entrando a Barcellona, visione incredibile per un cavaliere di ventura, aduso alle foreste incantate dove si raggiunge un castello ogni dieci giorni di vagabondaggio. Il quale incontra, nella desolazione di poveri campi e boscaglie paurose, quegli uomini semiselvaggi che, insegna la storia spagnola, non si convertiranno mai in membri di una società civile: saliti su un veliero e sbarcati in America si riveleranno le belve umane pronte a sbranare, per sottrare un anelletto d’oro, tribù intere di nativi. Selvaggi delle Serranías convertiti, nel corso della traversata dell’Atlantico, nelle belve delle Antille.

Bruti comandati da membri della piccola nobiltà ispanica i quali, non disponendo delle “entrature”  per aspirare, in patria, al titolo di cardinale, o a quello di siniscalco di un principe o un duca, non dovevano confrontarsi con alcuna remora morale per farsi predoni, siccome l’opzione non avrebbe comportato di impugnare, mai e poi mai, uno strumento manuale, per un nobile spagnolo l’onta che nessuna prova di valore avrebbe mai cancellato, curiosa attitudine dei membri di una nazione che proclamava di adorare, non di ammirare, o rispettare, ma adorare, una Divinità che informava i devoti di essere figlio di un falegname. Un’infatuazione, l’obbrobrio per il lavoro manuale, che superava ogni confine del ridicolo: ma un popolo di tanto sussiego non potrà mai possedere il più incerto senso dell’humour (peraltro prima dote del sommo Miguel). Sprovveduto, in quanto spagnolo, di quella dote, quando, avendo ritratto, verosimilmente, un membro della casa reale, fu insignito di titolo nobiliare, titolo “di spada”, il grande Velasquez, maestro europeo del pennello, non avrebbe percepito, proprio perché spagnolo, il ridicolo di proclamare, davanti a cortigiani ed ecclesiastici, che l’unico strumento che le sue mani avessero mai impugnato fosse l’espada. Non appare, a spirito libero, meno ridicolo, magari con venature di tragicità, un altro proclama, quello del più celebre storico (?) spagnolo, Salvador de Madariaga, che asserisce che, conquistando il Messico, Hernàn Cortez avrebbe compiuto la più inclita delle imprese militari di tutti i tempi, superando, in genialità strategica, Alessandro, il Marchese di Montecuccoli e Napoleone. Al devoto, più verosimilmente che storico, la soberbia hispanica consente di trascurare che i predecessori del suo stratega avevano combattuto, contro coloro che intendevano soggiogare, ad armi pari, spade e giavellotti contro spade e giavellotti in un caso, baionette e cannoni contro baionette e cannoni nell’altro. Non cavalli e archibugi contro lame e cuspidi di selce, notoriamente una pietra.

Ma è, ritengo, proprio un altro grande spagnolo a fornirci la chiave per chiudere, con una conclusione inoppugnabile, questo schizzo di una cultura tanto incline alle suggestioni da credere, fermamente, essere realtà il parto della propria sicumera, nell’illusione dissolvendo quel senso autocritico che è condizione essenziale della vita. La quale vida es sueño, il titolo della composizione più famosa del maggiore drammaturgo ispanico, Calderon: un sogno di gloria che inebria il dormiente, il quale si risveglierà nell’illusione, tanto prepotente da alterare persino il senso morale del generoso hidalgo Quijote, che, proteso a salvare un garzone dalle frustate del padrone, obbliga l’uomo, puntandogli la spada, di trattare il ragazzo con cavalleria, e si allontana certo che colui rispetterà il giuramento rivolto a tanto cavaliere, permettendogli, dopo avere “dato di sprone”, di sostituire alla frusta il bastone, con cui, menandolo furiosamente, azzopperà lo sciagurato.

Figlio della cultura del valeroso hidalgo della Mancha, sua santità Francisco si è proposto la medesima, suprema finalità del predecessore: corregir el mundo, impegnandosi, come il maestro, a deshacer  todo jenero de agravios,  enderezar sinrazones y tuertos, mejorar abusos. Il valeroso Manchero, riferisce, con la precisione dello storico, il suo creatore, aveva ritenuto che la decisione di farsi andante fosse stata incoraggiata dalle conversazioni col proprio cura, il quale amava fare visita al parrocchiano, e amico, dilettandosi di commentare qualche pagina dedicata alle gesta dei suoi eroi, don Galaor, Amadis de Gaula, el Cid Ruy Diaz. Espresso, peraltro, l’apprezzamento per il generoso impegno del curato, illuso che i propri colloqui terapeutici potessero dirottare le inclinazioni dell’amico verso lidi meno tragici, evitando si schiantasse sull’orrenda scogliera del proprio naufragio, che fu, però, inevitabile: En resoluciòn, el se enfrascò tanto en su lectura que se le pasaban las noches leyendo de claro en claro…Y asì del poco dormir y del mucho leer se le secò el cerebro, de manera que vino a perder el juicio.  

Riconosciuta, comunque, l’ineludibilità della tragica conclusione, non si può non attribuire una quota, non esigua, della responsabilità agli studi universitari: con la scrupolosità abituale, Cervantes informa il lettore che la facoltà frequentata dal buon cura era stata quella di Siguenza, dove la cattedra di teologia mancava, dobbiamo sinceramente dolercene, del supporto di un adeguato corso di sociologia, ma non si può, a proposito, mancare di deprecare la sciagurata propensione umana a cadere dalla padella alla brace, per tornare a cascare, trascorso un attimo, dalla brace alla padella: valga l’esempio, che ha molto addolorato chi scrive, del cenacolo di giovani preti che, nella propria città, compulsato ogni possibile testo di psicologia sociale, senza avere mai aperto un pagina della Secunda Secundae di Tommaso, della quale, si fossero informati, avrebbero appreso esistere eccellenti traduzioni italiane, che, quando incontrino, nel passo evangelico dell’omelia domenicale, asserzioni di Luca, o di Marco, che appaiano incompatibili con l’ultima edizione del manuale di Alberoni, reputano che l’evangelista sia, palesemente, caduto in errore, e ne adeguano il testo come il correttore di bozze, che, di fronte alla locuzione che l’autore abbia inserito nella pagina ricalcando un verso famoso di Foscolo, riconoscendo l’espressione come ferrovecchio, la emendano per rendere il testo comprensibile agli insegnanti attuali delle scuole italiche.

Con esemplare fedeltà al modello anche l’emulo vaticano si è affidato a studiosi addottorati in ateneo decoroso, come Siguenza, che pure non era Salamanca, studiosi licenziati (che, purtroppo, non significa sempre espulsi) dalla facoltà di sociologia di Trento, dove una cattedra sulla poesia cavalleresca non è ancora stata inaugurata, ma lo sarà, prossimamente, col supporto del ministro dell’istruzione, tale Valditera, non Val di Taro, dove sarebbe stato proficuo fosse andato a pescare ranocchi, che si è assicurato la consulenza della più famosa maga del pianeta, Vandana Shiva, erede, per linea maschile, del sabio (il mago) cui il caballero manchego  si affidava con la certezza che, gli fosse capitato, come era già successo al Caballero del Febo, di essere tagliato, perfettamente in due, dalla testa all’inguine, dal fendente di un descomunal gigante, con la propria segretissima pomata, il mago avrebbe riattaccato perfettamente i due pezzi.

Del tutto  estraneo, più precisamente alieno, alla civiltà centroeuropea, la civiltà della democrazia e della scienza sperimentale, l’attuale portatore della tiara è il primo, tra i successori di Pietro, ad essere straniero alla cultura di una Cattolicità intrinsecamente legata  alle fondamenta, direi genetiche, della civiltà occidentale: chi potrebbe disconoscere che la cultura grecolatina, Giustino e Atanasio di Alessandria, costituisca, storicamente, l’humus in cui si sviluppò il primo Cristianesimo, valgano, tra tutti, i nomi di  Girolamo e Agostino, appassionatamente impegnati nella disputa, tanto fraterna quanto focosa, su quale latino si dovesse impiegare nella divulgazione degli scritti sacri: quello di Cicerone, nelle cui penne, secondo l’amico, si pavoneggiava Agostino, o quello, comprensibile anche ai comuni mortali, di Tito Livio? Felicemente a tradurre in latino la Scrittura si sarebbe impegnato Girolamo, stilando un testo che chiunque abbia frequentato, nel millennio scorso, un buon liceo, è perfettamente in grado di comprendere. Agostino avrebbe stilato il proprio capolavoro con le Confessiones, lettura certamente straordinaria per un latinista di serie A, al quale, comunque, se la lettura di una pagina del padre illirico non richiede più di dieci minuti, l’apprezzamento di una pagina, di identica misura, del grande africano ne richiede almeno trenta.

Se solo ignoranza e stupidità possono contestare che la società europea dei secoli diciannovesimo e ventesimo debba essere considerata, con la propaggine nordamericana, il consorzio umano che più si è avvicinato, nella storia delle civiltà, al migliore appagamento possibile delle esigenze  dei propri associati, le migliori, non quelle perfette, notoriamente inattingibili, esigenze sociali, economiche, culturali e spirituali, non può sussistere dubbio che nel futuro del pianeta esigenze e aspettative umane potranno mutare, che, quindi, la “formula” impostasi, come la più congrua, tra i due secoli, potrebbe risultare, quantomeno parzialmente, “obsoleta”, che, quindi, gli equilibri tra domande individuali e risposte pubbliche possano variare. Il futuro è, senza dubbio, immenso foglio di carta bianca, che solo la più patetica sicumera può pretendere di istoriare secondo rimembranze e fantasticazioni che debbono essere reputate, razionalmente, retaggio individuale. Sul panorama dell’Eden, certamente affascinante, non esistono attestazioni sicure, che possano fornircene la raffigurazione fotografica: siamo obbligati a immaginare.

I ricordi personali di chi sia stato parroco in un villaggio nella Pampa, poi vescovo in una conurbazione in cui si dilatassero le miserabili favelas dei dannati della terra, ai cui margini, oltre barriere invalicabili, sorgessero le ville del privilegio sociale, economico, culturale, e, al di là di un orizzonte sterminato, oltre spazi continentali, si levassero cime nevose che la fantasia suggerisse sorvolate dal condor, non sono, palesemente, il futuro del Pianeta. Il cui presente propone, oltre agli orizzonti senza confini, quelli di conurbazioni in cui casupole, grattacieli e fondachi, piazze, vicoli e viali, si succedono e si intersecano per decine di chilometri, mostrando una realtà la cui trasformazione, o miglioramento, appare proposito sommamente arduo, di attuazione quantomeno improbabile, una realtà con la quale è necessario si misuri qualunque forza, intellettuale o civile, si proponga di migliorare, quantomeno di impedire peggiori, come potrebbe accadere, la vivibilità sul Pianeta.

Quel Pianeta compendia, oggi, scenari ancora suggestivi, cui si confrontano scenari tuttora vivibili, ma anche, e non pochi, scenari raccapriccianti. Chi scrive ha letto che, nelle scuole di Mexico, nei propri disegni i bambini colorano il cielo di grigio: non hanno mai visto un cielo azzurro. Proclamare che l’alterazione del Creato costituisca peccato contro la consegna dell’Onnipotente di preservarne lo splendore, accusando dell’infamia le multinazionali che tragittano frumento e carne dai continenti ove la produzione è sovrabbondante a quelli dove è insufficiente, senza essere in grado di proporre nulla per fare di meglio, non è solo prova di vacuità, ma, più realisticamente, di disonestà, con sfumature di mendacio. E immaginare che il progetto del mondo futuro possa generarsi da una sola testa, come Minerva dal capo chiomato di Giove, è, eminentemente, prova di fantasia infantile. Potrebbe prendere corpo, ove fosse possibile, dai lavori di un consesso mondiale di scienziati, convocati da un organismo di autorevolezza tale da essere universalmente riconosciuta, in possesso, cioè, di un prestigio capace di indurre la mobilitazione delle energie necessarie, certamente ingenti. Hanno tentato il cimento, negli ultimi decenni, organismi diversi, e di diversa competenza, sotto l’egida delle Nazioni Unite o di autorità differenti. Alla conclusione di uno dei più ambiziosi dei convegni convocati nelle capitali del mondo, riunito, a Roma, dalla Fao, nell’autunno del 1974, il segretario di stato americano del tempo, professor Henry Kissinger, proclamava che i documenti sottoscritti assicuravano che, attuati i piani concordati, la fame non avrebbe mai più minacciato la popolazione del Pianeta: dopo la metà di un secolo, al giubileo, quindi, dell’evento romano,  un’impressionante tempesta di reportages, filmati, invocazioni, attesta, quotidianamente, che i generosi auspici non erano che foglie d’autunno. Per richiamare governi e organismi internazionali a tentare ancora, sua Santità non ha mai esperito, per parte sua, alcun impegno: siccome l’obiettività impone di riconoscere che i tentativi degli organismi internazionali sono, onninamente, falliti, dovrebbe, seppure, in quanto sudamericano, non creda nella scienza, armarsi del coraggio dei grandi predecessori, i Gregori, gli Alessandro, Giovanni, e sfidare il muro del fatalismo che impera, ormai, inoppugnabile. Non mancano, a incoraggiarlo, le gesta dei predecessori. Cito la risoluzione con cui, l’anno 1664, Alessandro VII minacciò di scomunica il sovrano di Francia il quale, mentre i Turchi si dirigevano, con un’armata sterminata, contro Vienna, rifiutava di inviare le proprie forze perché, contribuendo ad arrestare, a oriente, l’impero ottomano, avrebbero fatto il dono più straordinario all’imperatore di Vienna. Consapevole che la conquista di Vienna, da parte del Turco, avrebbe significato l’agonia dell’Europa cristiana, sua Santità minacciò sua Altezza reale di scomunica. Sire della Nazione che si proclamava, orgogliosamente, primogenita di Roma, le Roi, al tempo si scriveva Roy, inviò la cavalleria nobiliare, i cavalli più pesanti del pianeta, montati, perciò da patrizi coperti da tanto metallo da essere, praticamente invulnerabili, con l’ordine, a chi la comandava, di immaginare un pretesto, sul campo, per non combattere. Il comandante imperiale, il marchese di Montecuccoli, parlava, correntemente, sei lingue, e conosceva lo smisurato senso dell’onore dei nobili francesi, che provocò proclamando che, annientato, quel giorno, l’impero cristiano, i loro discendenti avrebbero dovuto vergognarsi, per sempre, del cognome e del titolo, disonorati, uno e l’altro, dagli avi che avevano abbandonato il mondo cristiano alla bestialità ottomana. Il primo, a inorridire della prospettiva, sarebbe stato chi comandava la schiera francese, palesemente un principe, Condé o Valois, consapevole che il primo disonorato sarebbe stato lui, il quale levò, a fugare il dubbio, il braccio ordinando alle trombe di comandare “lancia in resta”. Collocata la cavalleria francese su un colle prospicente la Raab, il torrentello che avrebbe dato nome alla battaglia, il grande Marchese lasciò quel solo tratto di fiume sguarnito da cannoni e archibugi invitando gli ottomani a tentar il passaggio, l’invito che sarebbe stato accolto dal vizir Kuprolu. Ma il cavallo arabo è straordinario corridore, l’animale ideale per assalti e fughe nel deserto, portando un uomo con elmo, scudo, lancia e scimitarra, praticamente privo di armatura. Il Marchese lasciò che varcasse il guado qualche centinaio di spahi, i cavalieri ottomani, poi ordinò alle trombe lo squillo, che avrebbe avviato la conversione del fiumicello in orribile carnaio di uomini e bestie agonizzanti. Sua Santità avrebbe inviato, benedicente, al cardinale arcivescovo di Parigi, il mandato di celebrare, a onore di sua Maestà, devoto suddito di Cristo, il più solenne pontificale in Notre Dame. Vienna salvata da un supremo generale, per l’opzione di un grande monarca, indotto, con la minaccia di rivoltargli contro il reame, da un grande papa.

Le vicende della storia che si svolge dinnanzi ai nostri occhi non chiederebbero all’attuale pontefice di assicurare archibugi, picche e cavalli al generale chiamato a respingere nelle steppe asiatiche le orde dell’erede di Gengiz Khan, tradotto in russo Vladimir Putin: dovrebbe, invece, ordinare all’organismo scientifico della Chiesa di Roma, la Pontificia Accademia delle Scienze, di dialogare, apprestando comitati, convegni, gruppi di studio, per contribuire al confronto con le grandi istituzioni scientifiche, statunitensi, britanniche, tedesche, impegnate ad indagare i processi, climatici, atmosferici, demografici, biochimici, i cui equilibri, ne sono consapevoli, ormai, anche il tabaccaio e il titolare dell’edicola dell’angolo, alterati da un uso imprevidente delle risorse del Pianeta. Una preoccupazione che dovrebbe, palesemente, tradursi delegando le ricerche necessarie a istituzioni che coinvolgessero scienziati della più alta levatura possibile. Ad un papa orgoglioso, però, di essere figlio del continente che vanta il numero minore, su scala planetaria, di istituti di studi scientifici, l’impegno non può che apparire, comprensibilmente, o del tutto pleonastico o, alternativamente, sovrumano. Alla titubanza sua santità potrebbe opporre, quanto ragionevolmente non è dato sapere, la fiducia nel Signore di cui è il legato in terra. Se non si fidasse neppure del proprio padrone sarebbe del tutto sensato considerasse l’opzione, dalle recenti, molteplici repliche, delle dimissioni: teme di disonorarsi, incorrendo nel discredito che onorò chi “fece per viltà lo gran rifiuto”?  Di fare il papa non gli è stato ordinato dal medico di famiglia: ora che è papa chieda all’archiatra pontificio di prescrivergli una pastiglia contro i giramenti di testa e, fatta di necessità virtù, si butti. Portare la tiara su una zucca vuota, dovrebbe percepirlo anche lui, non nasconde nulla, non è il riscatto da un fallimento personale, storico, planetario, e, se tale fosse, meglio chiudere: la gente dimenticherebbe. Continuare a fare mostra di sé come, e in quanto, Re Travicello, non rimedia a niente, accresce il numero dei devoti che, dopo avere nutrito qualche dubbio, si sono già uniti al coro di quanti, convertita la perplessità in certezza, hanno sostituito i fischi ai se e ai ma. Rendendosi conto che anche il patrizio romano, duca o marchese, che gli regge il gomito quanto sale in sella gestatoria, si vergogna, poco, o tanto, anche lui: sostenendo il braccio di papa Giovanni, era certo che tutti i gentiluomini del Pianeta lo avrebbero invidiato, sostenendo quello di Francisco è altrettanto certo che milioni e milioni lo considerano un manichino del passato remoto, impegnato in un rituale ormai fuori tempo massimo. Se avesse percepito, nell’incarico, in tempi meno secolari, un compito superiore alle proprie capacità, la soluzione gli sarebbe stata suggerita dal predecessore, che si è dimesso seppure reputato, universalmente, grande teologo. Dimesso summa cum aestimatione. Verosimilmente, a dissuaderlo dalla scelta, l’impedimento capitale è il dubbio contrario: che, anziché essere ricordato, dopo l’addio, come grande teologo, amabile, pastore, padre benevolo, sarebbe stato ricordato come il grande, irreparabile nulla. Ciò che gli assicurerebbe, peraltro, almeno una consolazione: il nulla si dimentica. Nessuno lo avrebbe ricordato. Nessuno: mai più. Senza alcun onore ma, a titolo di consolazione, il disonore minore possibile.

 

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