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L’Ucraina divide il Paese: due Italie a confronto

In corso da oltre un mese, l’invasione russa ha aperto inevitabilmente una serie di questioni che potrebbero essere percepite come di rilevanza minore. Non solo i dibattiti sull’attuale situazione globale e alle relative, e possibili, conseguenze sul piano economico meritano l’attenzione dei media e degli studiosi: la visione disgregata degli italiani ha comunque un peso consistente, e porta a una serie di riflessioni su quanto questa crisi impatti sull’intera società

Antonio Saltini

L’Ucraina divide il Paese: due Italie a confronto

Più di un a articolo ha sottolineato, sulla stampa, quella nazionale e quella estera, che la spedizione russa per soggiogare l’Ucraina ha chiuso, verosimilmente senza possibilità di riapertura in tempi vicini, la breve età della “globalizzazione”, aperta, essenzialmente, dal tracollo del totalitarismo sovietico, un’età in cui alla contrapposizione tra ideologie opposte della convivenza umana, una contrapposizione che comportava inevitabili corollari militari, si sostituiva la competizione economica, quanto si voglia accesa, che si presupponeva, peraltro, sottintendere la collettiva adesione ai principi della convivenza delle culture diverse, dell’accettazione comune, cioè, dei fondamentali principi della libertà di ogni membro della pluralità delle nazioni di scegliere la propria forma di convivenza, nel rispetto di quella di ogni altra nazione.

Un assioma che comportava, logicamente, un corollario opposto a quello, militare, dell’età della contrapposizione, il convincimento che concezioni etiche, economiche, religiose avrebbero potuto diffondersi e confrontarsi liberamente, una supposizione di palese matrice illuministica (quindi, essenzialmente occidentale), che si sarebbe scontrata con la prima, inequivocabile confutazione in Piazza Tien an Men, il precedente più eloquente dell’”operazione speciale” del nuovo czar delle Russie in Ucraina.

Ne costituisce prova luminosa l’atteggiamento dell’autocrazia cinese verso quella russa, un atteggiamento che rivela la contraddizione tra la determinazione a non sacrificare i vantaggi della “globalizzazione”, primo tra tutti la marea delle lucrose esportazioni in Occidente, e la ferma, quantunque illogica, pretesa a disconoscere le fondamenta razionali della medesima, il riconoscimento che la competizione mercantile impone l’assoluto rispetto, ideale e politico, dei partner.

Se l’assalto all’Ucraina ha segnato, probabilmente in modo irreparabile, la fine di un’era e il ritorno a quella precedente, quella della “guerra fredda”, in Italia essa ha aperto, drammaticamente, una frattura che incrinava, da tempo, verosimilmente da sempre, la società nazionale, ma che la Nazione celava, in qualche modo mascherando la contraddizione di una società in parte ingente pervasa da un radicale, plurisecolare opportunismo-servilismo, legato ereditario, è stato scritto cento volte, di secoli di soggezione militare e culturale, il sentimento collettivo da sempre identificato con la locuzione “Francia o Spagna purché se magna” una percezione della società la profondità delle cui radici è proporzionale, rilievo ripetuto, anch’esso, cento volte, alla più o meno recente sostituzione delle regole della società medievale (con la soggezione personale dei sudditi a baroni, signori della vita e della morte dei sottoposti) con le istanze della società moderna, con tribunali per i quali la legge fosse (quasi) uguale per tutti, ed anche duchi e conti fossero obbligati al pagamento delle pubbliche imposte.

Seppure il disprezzo per i propri contadini fosse assolutamente identico nei sontuosi palazzi nobiliari fiorentini e in quelli, altrettanto fastosi, dei principi palermitani, nessun marchese toscano, seppure aduso al sopruso, avrebbe mai immaginato di fare assassinare, da uno sgherro mafioso, il marito della contadina che desiderasse possedere.

È sufficiente ricordare, senza la pretesa di ascendere alla vetta della filosofia politica, la corale adesione dell’italica plebe al fascino equivoco della caricatura romagnola di Caligola, per i compaesani l’Umazz, per verificare quanto fosse estranea all’Italia del 1922 qualunque radicata coscienza democratica, peraltro ulteriormente offuscata, anziché consolidata, dall’ottantennio di una monarchia fondato sul più disinvolto cinismo, il cinismo attestato, inequivocabilmente, dal fiume di denaro donato da re Umberto, il “Re buono” (?) al generale Bava Beccaris, lo sterminatore della folla operaia milanese che chiedeva salari che consentissero una vita più dignitosa.

Al termine del secondo conflitto mondiale il primo parlamento della nuova Italia suggellò una Costituzione universalmente riconosciuta quale autentico capolavoro del diritto pubblico, l’ammirazione per la quale non può indurre a dimenticare il monito dei maestri del costituzionalismo ottocentesco a distinguere, in qualunque società, la costituzione “formale” da quella “materiale”, il testo che dovrebbe disciplinare, cioè, l’insieme delle espressioni della vita della medesima, dall’insieme delle consuetudini, delle regole non scritte, ma universalmente applicate, radicate nel contesto civile.

A rendere oltremodo ampia, in Italia, la divaricazione, sussisteva, peraltro, una circostanza capitale: la costituzione repubblicana era stata sottoscritta dalla seconda delle formazioni politiche nazionali, il Partito comunista italiano, per la semplice ragione che il Paese era rimasto presidiato dalle truppe statunitensi che dall’Italia avevano cacciato quelle tedesche, sopraffacendo, insieme, gli scherani locali loro alleati.

Stalin aveva posto a capo dei propri seguaci italici, si deve ancora ricordare, il più fidato dei propri satelliti, Palmiro Togliatti, lo sterminatore delle bellicose legioni anarchiche spagnole, un uomo la cui doppiezza, una dote ammirata da tutti i devoti del grande (?) Machiavelli, gli avrebbe consentito di animare un partito marxista in un paese dalla costituzione democratica fino al giorno in cui l’auspicato rovesciamento degli equilibri internazionali gli avesse consentito, vestita la casacca di rivoluzionario, di farsi despota, nello stile collaudato dai lacchè del tiranno russo in Germania, Polonia, Ungheria, gli egregi Otto Grotewohl, Walter Ulbricht, János Kádár, Enver Hoxha, Erich Honecker, etc., dei propri compatrioti per selezionare, eliminando i “refrattari”, i volenterosi costruttori del paradiso terrestre, la “dittatura del proletariato” propugnata da Marx.

Alla conversione della miserabile (merito di tutti i regimi succedutisi nel Paese) plebe italica alle regole dello Stato di diritto, il Partito comunista non avrebbe prestato alcun autentico contributo: basti riflettere, per asseverarlo, all’avversione del Marxismo all’eguaglianza, di fronte alla legge, di tutti i cittadini, qualsiasi ne fossero i convincimenti politici e religiosi.

La furia comunista a introdurre propri adepti nelle file della magistratura non ha costituito, palesemente, espressione del proposito di contribuire al radicamento del credo nello Stato di diritto, ma di quello, opposto, di disporre di agenti propri in un apparato capitale nell’orientamento della vita civile.

Tra cento contraddizioni il Paese si è avvicinato, peraltro, nel cinquantennio successivo al varo della Carta costituzionale, alle condizioni capitali dello Stato di diritto, un processo di cui deve riconoscersi l’arresto nei sedici anni al potere di Silvio Berlusconi (tra 1994 e 2011 3.340 giorni sul seggio dorato di Palazzo Chigi, insidiando il glorioso primato di sua eccellenza Mussolini).

È stata la lunga stagione del Berlusconismo, una prassi di governo perfettamente consona ai dettami identificati da Orwell nella filosofia del Grande Fratello, il despota che avrebbe distillato la prassi per soggiogare il proprio paese attraverso la televisione.

Magnate del maggiore trust televisivo italiano, in grado, quale capo del Governo, di influenzare pesantemente la tivu di Stato, il Cavaliere ha attuato un piano certamente geniale per convertire un popolo in cui la coscienza civile non aveva mai costituito imperativo cogente in plebe di consumatori, consumatori delle banalità televisive propinate a tutte le ore del giorno, consumatori dei mille prodotti reclamizzati dai televisori di cui costituiva il demiurgo, vate della nuova etica fondata sull’assioma “Tu sei quello che consumi”: hai la Ferrari? Sei cittadino di serie A. Hai la Mercedes? Serie B: impegnati, puoi superare te stesso. Hai la Cinquecento? Svegliati! Non puoi restare per sempre un miserabile!

Profeta di un qualunquismo teledipendente e opportunistico, il Cavaliere ha suscitato l’ammirazione, e l’invidia, di tutti gli arrivisti italioti, che, seguendone il magistero, hanno popolato il parlamento nazionale, e, ancor più pervasivamente, i parlamentucoli regionali.

I quali, ripristinando il patchwork di ducati, marchesati e baronie dell’Italia cinquecentesca, ne hanno resuscitato gli standard di clientelismo e irresponsabilità: è sufficiente ricordare, a spiegazione, il tracollo imposto, per assecondare il colorito zoo dei fanatici bio, biodinamici, vegani, animalisti e pseudoambientalisti, alle produzioni agricole nazionali, determinando una dipendenza dalle importazioni di derrate che, nel nuovo scenario planetario, costituisce ipoteca esiziale all’opulenza dei supermercati, aggiungendo la tragedia della sanità di tutto il Meridione, da cui folle senza numero sciamano negli ospedali del Nord, che le regioni più accorte hanno convertito in autentiche macchine per fare cassa impoverendo (ma, nel caso, non è colpa loro) le consorelle meridionali.

Il doveroso encomio dedicato al cavalier Berlusconi sarebbe, peraltro, gravemente carente ove mancasse del solenne riconoscimento del successo riscontrato dalla filosofia politica del medesimo: Vladimir Putin, fedele compare del Cavaliere, ne ha pubblicamente riconosciuto il genio politico, come lo ha riconosciuto, implicitamente o esplicitamente, Donald Trump, prestigioso leader della più “muscolosa” potenza planetaria.

Il costume di un tycoon impadronirsi delle leve del potere a proprio, esclusivo beneficio, è, da sempre, regola suprema di comportamento dei politicanti afro-asiatici (è sufficiente, a proposito, ricordare Jean Bedel Bokassa e Ferdinand Marcos), la sua applicazione integrale era reputata, unanimemente, del tutto indecorosa nei paesi di tradizione occidentale, dove essa doveva, quantomeno essere praticata con somma cautela (la precauzione di cui mancò un grande statista italico, Bettino Craxi, maestro, peraltro, del Cavaliere).

Miliardari al potere, sulla plebe degli imbelli: la formula di governo, non si può mancare di insistere, del Grande Fratello.

All’esito felice del disegno di ottundimento dell’italica plebe perseguito dal Cavaliere non si può non associare l’espressione della considerazione per l’impegno di un altro protagonista dello scenario italico, sua santità Francesco, il pontefice che, nel corso del pontificato, ha affrontato, in documenti diversi, problemi capitali della società planetaria, sempre preoccupandosi di escludere categoricamente, dal novero dei consiglieri consultati, geografi, climatologi, biologi, botanici, ricorrendo sistematicamente, invece, a “comunicatori” ignari di tutte le scienze della natura, ma dalla fantasia fertilissima a immaginare dottrine che appassionassero l’indotto vulgo, tra i quali ha sempre primeggiato, incontrastato, un Arci-famoso capocuoco.

Figlio della Pampa l’attuale pontefice è erede legittimo della terra in cui il lascito della Spagna, società “cattolicissima” di una gente tanto prepotente quanto avida, guidata da un’aristocrazia i cui membri vantavano di non saper usare alcuno strumento manuale diverso dalla spada, vanto di cui nessuno denunciò mai le connotazioni ridicole, ove proclamato da chi si professava devoto (e, ambiziosamente, tutore) della religione predicata dal Figlio di un falegname, che tolse la spada di mano all’eroico discepolo che, solo contro cento sgherri, si gettò per essere ucciso nella difesa del proprio Maestro.

Forse la ragione per la quale Sua Santità non cita che raramente il nome di Gesù Cristo, che non ha menzionato una sola volta, ad esempio, nella recente, sfolgorante comparsa televisiva.

Un rilievo che non si può mancare di integrare ricordando la recentissima intervista, apparsa su un quotidiano di antico rilievo, al Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, che riconosceva, candidamente, la drastica contrazione della presenza cattolica nell’intero scenario sociale e culturale, una dichiarazione che il giornale trascriveva senza alcun commento, il primo tra i quali avrebbe dovuto consistere in una domanda: quanto possano avere influito, sulla medesima caduta, la cultura e le opzioni dell’attuale Pontefice.

Non è trascorso, infatti, che un pugno di anni dalla pervasiva presenza, nella società planetaria, di papa Woytila, con inequivocabile ammirazione riconosciuto quale Parroco del Mondo, che a Kiev sarebbe volato dopo il primo giorno di combattimenti, una scelta radicalmente opposta a quella del successore, che all’invito di scendere in campo ha opposto le cento perplessità di chi, palesemente, non voleva urtare i fans dello kzar Vladimir.

Gesuita pampero, confratello di “maestri” di teologia che confutano l’esistenza del Demonio, opzione legittima di ogni libero pensatore, del tutto ridicola sulla bocca di chi si proclami seguace del Vangelo, il cui Protagonista menziona, quale avversario capitale, il Principe di questo mondo decine di volte.

Si deve riconoscere, candidamente, che la Società di Gesù ha assicurato alla Chiesa testimoni di suprema carità e di eguale sapienza, tanto teologica quanto naturalistica, insieme ad esempi della più inquietante condiscendenza ai vizi umani; menziono, tra i primi il sommo teologo, e matematico, Roberto Bellarmino, il cardinale che impedì la condanna di Galileo al primo processo affermando che se il grande Toscano avesse dimostrato, in forma “necessaria e sufficiente” che tutti i fenomeni naturali si svolgono secondo leggi matematiche, l’autore di quelle leggi doveva essere riconosciuto, inequivocabilmente, nel Creatore dell’Universo, che quindi Galileo, suggerì accortamente ai giudicanti, avrebbe dovuto essere invitato a proseguire le proprie indagini con tutta la determinazione, l’asserzione che avrebbe scongiurato, teologicamente, ogni conflitto tra dottrina cristiana e scienza sperimentale.

Un postulato di cui, sciaguratamente, non compresero, la portata cardinali e inquisitori del tempo, che pure elevarono il grande teologo alla gloria degli altari, che, imponendosi, avrebbe segnato la discriminante, nella sfera della conoscenza, tra il credo cattolico e le diverse fedi praticate sul Pianeta.

Sul terreno opposto è sufficiente menzionare il secolare impegno gesuitico ad educare i rampolli dei ceti abbienti, cui non suggerirono mai di rigettare lo stile di vita del ricco epulone evangelico, purché si riconoscessero figli devoti di una Chiesa la cui solidità doveva fondarsi, reputavano, sui legami con le sfere dominanti.

Concludendo l’intera argomentazione è d’obbligo rilevare l’infausto connubio che, nelle società moderne, come in quella italica in quelle spagnola, francese, anglosassone, si è stabilito tra dottrine populiste pronte a venerare un opulento tiranno, superstizioni no-vax, credenze “bio”, biodinamiche, animaliste, pseudoambientaliste, pseudonaturalistiche, la colorita paella da cui è scaturita, nuova Minerva dal cranio paterno, l’inedita congrega dei fans europei di Vladimir Putin.

Cui si è opposta, con determinazione, la stampa maggiore, menziono il Corriere della sera e La Stampa, emittenti radiotelevisive, una molteplicità di cittadini, tanto da consentire a Mario Draghi, seppure con una maggioranza parlamentare non plebiscitaria, di assurgere ad un ruolo di primo piano tra gli statisti impegnati nella difesa dei principi supremi dell’eguaglianza di tutti i consorzi politici, dispongano o no di armi nucleari, quindi del diritto irrinunciabile di tutti i cittadini del Mondo di scegliere lo statuto politico da cui vogliano essere governati, e di quello, parallelo, di ogni consorzio umano di competere, alla pari con ogni altro, nella creatività scientifica, culturale, industriale, commerciale, un’istanza di cui dobbiamo essere riconoscenti al presidente Draghi per il ruolo assolto nell’includere l’Italia tra i paesi impegnati a tutelare i valori supremi della società degli uomini.

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