Scrigno di fuoco e di mare
Antonino Caravaglio, produttore di un vino che definisce “nudo”. Una Malvasia, la quintessenza della geografia umana delle Eolie
Antonino Caravaglio ha le vigne che guardano il mare di Salina. Lo guardano da Malfa, dalla costa a nord, verso l’orizzonte aperto, senza altre terre in vista prima della Sardegna. Una condizione due volte insulare. Vigne ordinate e belle, tagliate dalle forre che scendono lungo i fianchi del monte Fossa delle felci, il più alto dei due che, svettando come gemelli, determinarono il primo nome dell’isola: Didime.
Altrettanto concreto dell’attuale (Salina, derivato dal laghetto di Lingua, dove si estraeva il sale) ma, forse perché scelto da guerrieri greci, provenienti dall’Asia Minore, a caccia di nuove terre, condito d’altre, favolose, assonanze. Queste forre, verdissime, hanno la funzione di termoregolatori, convogliando aria fresca e rappresentano, alla stregua di grandi siepi scoscese, una riserva di biodiversità da cui vigne o campi attingono salute.
Miracolosamente e non senza qualche contorsione, le stesse cantine e l’intero processo di fermentazione, affinamento dei vini e imbottigliamento, si sono adattati al paesaggio verticale, scomparendo dietro le pareti di quella che fuori non è altro che una casa isolana.
Più complesso, invece, definire, la personalità del vignaiolo. Essere di ceppo contadino e isolano apre a molte sottigliezze. L’isola, per definizione, conservatrice, è sottoposta ai cambiamenti in maniera molto più repentina e radicale. «Salina dà due frutti – spiega Caravaglio – la Malvasia e i capperi. Venti anni fa’, per via delle fluttuazioni del prezzo di quest’ultimi, bisognava scegliere se abbandonare la terra o fare qualcosa di diverso.
«Decidemmo di continuare, aumentando e diversificando la produzione vinicola e, soprattutto, gestendo la filiera in prima persona, dal campo alla vendita». Lo ricorda senza asprezze, con soave determinazione, tenendo lo sguardo dritto e lieve, commisurandone la profondità a quel riserbo che ha l’amor proprio come principale interlocutore. Lo stesso sguardo che doveva avere sua madre capace, prima della crisi, di far studiare tre figli, basando l’economia familiare solo sul guadagno offerto dai capperi.
Le due facce della Malvasia
Fu così che, per necessità e per virtù, Antonino Caravaglio iniziò a produrre la sua Malvasia delle Lipari doc, con un 5% di Corinto nero, vendemmiati a mano, esposti su cannizze per un arco di tempo che va dai dieci ai quindici giorni e ritirati, ogni notte, al riparo nelle pinnate, chiuse su tre lati.
Ne viene fuori un vino passito, definito un tempo “vino navigato o greco”, giunto fin qui con i Veneziani che ne diffusero la tecnica di produzione in tutto il Mediterraneo, in grado di dipingersi in bocca come un cerchio, un cerchio continuo di morbidezza e profumi, dagli agrumi canditi al miele di zagara, alla vaniglia.
«A chi mi chiedeva un giorno come definire questa Malvasia – precisa Caravaglio – gli risposi che per me era un vino nudo, quintessenza della geografia umana delle Eolie».
Dove la cura delle più antiche tradizioni enoiche dell’isola si trasforma in impresa è quando il vignaiolo decide di provare a vinificare solo Malvasia al cento per cento, escludendo l’appassimento sulle cannizze. E cosa nasce? Nasce il Salina bianco igt, vino secco con un’ottima acidità e sentori di fiori bianchi e di macchia.
Se alla Malvasia delle Lipari doc potevamo associare un tipo di bellezza arcana, di stampo divino, il Bianco suggerisce, al contrario, un sentimento acceso di passione, molto più libertino.
Nella pancia del vulcano
Anche la famiglia di Caravaglio sopportò le conseguenze dell’arrivo tardivo della filossera nell’arcipelago. Alla fine dell’Ottocento, Salina si spopolò di braccia e la maggior parte degli isolani emigrò in America. La filossera colpì ovunque, tranne nel cuore di Lipari che ne era stato per così dire la culla stessa.
La caldera di Fossa del monte, tra il Guardia il Gallina, pancia del vulcano da cui prese forza e forma l’isola più grande, conservò grazie alla composizione del terreno, fatto di cenere, sabbia e pomice, i vitigni originari.
Così, la sfida di fare un vino unico coincise letteralmente con la preistoria geologica del luogo.
La produzione biologica del Nero du Munti, figlio di un Corinto nero in purezza, copre appena un ettaro e mezzo pari a un sesto circa della superficie totale dell’antichissimo cratere.
Uno dei suoi tratti caratteristici è il modo con cui viene riprodotto. Giunta al termine del ciclo vitale, la pianta è interrata, in attesa di scegliere il getto migliore. Grazie a questa soluzione, il terreno è innervato da una rete di tralci che furono ceppi e risorsero viti. Sarà anche per questo motivo che il Nero du Munti si mostra vestito di un bel color rubino, marcando note di frutti rossi, primo fra tutti la prugna selvatica, e chiudendo con un accenno di spezie. Scrigno di fuoco e di mare.
Azienda agricola Antonino Caravaglio, via Nazionale, 33 – Malfa (Messina)- caravagliovini@virgilio.it
Questo articolo di Nicola Dal Falco è stato pubblicato lo scorso 19 agosto 2013 sul portale di Olio Officina Food Festival, lo riproponiamo qui, con altro titolo, a beneficio dei lettori di Olio Officina Magazine
Salina – Antonino Caravaglio ha le vigne che guardano il mare di Salina. Lo guardano da Malfa, dalla costa a nord, verso l’orizzonte aperto, senza altre terre in vista prima della Sardegna. Una condizione due volte insulare. Vigne ordinate e belle, tagliate dalle forre che scendono lungo i fianchi del monte Fossa delle felci, il più alto dei due che, svettando come gemelli, determinarono il primo nome dell’isola: Didime.
Altrettanto concreto dell’attuale (Salina, derivato dal laghetto di Lingua, dove si estraeva il sale) ma, forse perché scelto da guerrieri greci, provenienti dall’Asia Minore, a caccia di nuove terre, condito d’altre, favolose, assonanze. Queste forre, verdissime, hanno la funzione di termoregolatori, convogliando aria fresca e rappresentano, alla stregua di grandi siepi scoscese, una riserva di biodiversità da cui vigne o campi attingono salute.
Miracolosamente e non senza qualche contorsione, le stesse cantine e l’intero processo di fermentazione, affinamento dei vini e imbottigliamento, si sono adattati al paesaggio verticale, scomparendo dietro le pareti di quella che fuori non è altro che una casa isolana.
Più complesso, invece, definire, la personalità del vignaiolo. Essere di ceppo contadino e isolano apre a molte sottigliezze. L’isola, per definizione, conservatrice, è sottoposta ai cambiamenti in maniera molto più repentina e radicale. «Salina dà due frutti – spiega Caravaglio – la Malvasia e i capperi. Venti anni fa’, per via delle fluttuazioni del prezzo di quest’ultimi, bisognava scegliere se abbandonare la terra o fare qualcosa di diverso.
«Decidemmo di continuare, aumentando e diversificando la produzione vinicola e, soprattutto, gestendo la filiera in prima persona, dal campo alla vendita». Lo ricorda senza asprezze, con soave determinazione, tenendo lo sguardo dritto e lieve, commisurandone la profondità a quel riserbo che ha l’amor proprio come principale interlocutore. Lo stesso sguardo che doveva avere sua madre capace, prima della crisi, di far studiare tre figli, basando l’economia familiare solo sul guadagno offerto dai capperi.
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