Impronte di vita
L’ipocrisia, dice La Rochefoucauld, è un omaggio che il vizio rende alla virtù, meglio avrebbe fatto a definirla come il rivolo perenne che inquina il meraviglioso mare del buon senso e della ragione
Non so se esiste un cammino più lungo della vita, anche se, non sempre, quel cammino non è lungo quanto noi vorremmo o altri vorrebbero.
È il cammino di un piccolo essere che passo… passo…, sempre in avanti, in una superficie sconfinata, o, almeno, lui non riesce a percepirne i confini, come un guscio che approda al mare che si perde all’occhio e non sa dove andrà e se arriverà a un approdo sicuro.
E lui è come quel guscio, deve sempre scavalcare o cavalcare quell’onda che non ha fine, a volte conquista qualche metro, a volte arretra un poco.
Il suo cammino è il pensiero che lo guida, come il timone del guscio, nella quiete riesce a riflettere e procede diritto poi, nella tempesta, s’irrigidisce e fatica a tenere la giusta direzione.
Non sa, il poveretto, che le onde non finiranno mai, che ne sarà continuamente bagnato dalla schiuma che tenta di spazzare via perché, a volte, gli vela gli occhi impedendogli di vedere, anzi, vede immagini ondeggianti e sfumate e non sempre riconosce la realtà.
Forse è meglio avere gli occhi velati quando egli si rende conto che sta per arrivare l’onda alta che non è cavalcata da una tavola ma è cavalcata dall’ipocrisia.
Già, l’ipocrisia, in realtà, è sterminata come il mare e, come l’onda impazzita, se non è accorto, lui, quel piccolo essere, viene travolto e non ha armi.
L’ipocrisia, dice La Rochefoucauld, è un omaggio che il vizio rende alla virtù, meglio avrebbe fatto a definirla come il rivolo perenne che inquina il meraviglioso mare del buon senso e della ragione: è più difficile togliersi dagli occhi la schiuma d’onda che la visione dell’ipocrita che ti sta davanti.
Passo dopo passo, sulla battigia, rifletto sulle impronte di vita, mi chiedo se qualcuna di quelle impronte ha lasciato un segno o se, come quelle dei miei piedi, si sciolgono all’arrivo dell’onda successiva.
Mi chiedo se ho vissuto di certezze o di fantasie, se sono riuscito a tenere dritto quel timone o se ho ceduto al maroso più violento.
Non so cosa dire, non lo so cosa ho fatto. L’unica cosa che percepisco è il monito che mi scrisse il mio amico Mario Tiengo e che recitava: “Più andrai in alto e più ti accorgerai di essere solo”.
Io non so se sono andato in alto ma, certamente sono consapevole di essere solo e la mia solitudine sta bene ancorata in quel maledetto cervello che non cessa di pensare, che rincorre l’illusione del sapere, che vive nell’angoscia di non riuscire a comunicare ciò che pensa, che non si rende conto se riesce a farsi capire, che non riesce ad accettare la scienza quand’essa si fa ipocrisia, che non riesce a perdonare la speculazione scientifica quando diventa cosa falsa, che non si dà pace perché ha il dono imbarazzante della logica e, sovente, percepisce sequenze non sempre gradite.
Ecco, allora mi rimane il mare con le sue onde che si ripetono con cadenza esasperante, come i miei pensieri, mi rimane la spiaggia che non trattiene le impronte ma le scioglie così come si sciolgono i pensieri, senza lasciare traccia.
Le impronte di vita, bagnate, si sciolgono nei milioni di granelli di sabbia, se ne vanno e, forse, così deve essere.
Camminare la vita senza lasciare traccia, senza disturbare, senza perdersi in inutili ricordi, aspettando, ad ogni passo che l’onda di riva cancelli il tuo passaggio, certamente è un vivere che non soggiace all’ipocrisia.
In apertura, foto di Olio Officina
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