La centaura
Racconto. «Che splendido culo!» disse l’uomo al volante, fermo al semaforo. Al verde la vide riassestarsi in sella e, sempre col sedere in vista, ripartire facendo una gimkana tra le macchine. Lo spettacolo era unico. La temperatura ideale. La strada tra gli ulivi, il mare sotto di loro. Poi, l’imponderabile
Ore 15.00
Se la trovò a fianco al semaforo sulla circonvallazione. Si era incuneata tra la sua auto e quella vicina. Poi si era messa in piedi sui pedali. I calzoni bassi lasciavano ben in vista la divisione dei glutei.
«Che splendido culo!» disse l’uomo al volante. Ma, da uomo distinto qual era, fermò i suoi pensieri a quella improvvisa esclamazione.
Al verde la vide riassestarsi in sella e, sempre col sedere in vista, ripartire facendo una gimkana tra le macchine, superarle tutte e sparire in fondo alla via. I capelli che uscivano dal casco nero, biondi e mossi, al vento.
Ore 15.15
La signora di mezza età stava sfilando il biglietto dall’erogatore prima di entrare in autostrada. La vide dallo specchietto retrovisore della sua Toyota Aygo. Aggressiva, nel suo chiodo di pelle nera. Poi affiancarla e superla con una manovra a dir poco azzardata. La schiena – e non solo – mezza nuda. «Che femminilità!» esclamò la donna con sarcasmo misto a invidia per l’esuberanza e la bellezza della giovane.
Ore 16.30
Stavano salendo gli ultimi tornanti. Avevano deciso di fermarsi per un caffè nel primo paese. Lo spettacolo era unico. La temperatura ideale. La strada tra gli ulivi, il mare sotto di loro. «Che spettacolo, Gianni» disse la moglie stringendosi alla schiena del marito. «Sì, un vero spettacolo. Ma alla prossima curva cerca di piegarti con la moto e non stare sempre così rigida e impaurita aggrappata a me…». La moglie ci rimase un po’ male. Non erano più dei ragazzini e lei, soprattutto, si sentiva tutti i suoi anni addosso. Che idea comprarsi una moto! Marisa capiva benissimo di non essere la compagna ideale. Però non le andava neppure di lasciare il marito solo. A Gianni, invece, non sarebbe parso vero. Anche questo lei capiva. Ma una moglie è bene che segua il marito se non vuole poi trovarsi di fronte a certe sorprese… Gli uomini con gli anni vanno un po’ fuori di testa. «Sì» pensò tra sé «meglio che ci sia io con lui».
Proprio in quel momento furono superati dalla ragazza. Piegata completamente in due per creare il minimo attrito metteva in mostra la curva dei fianchi e la nudità della pelle sopra la cintura. I capelli biondi e lunghi erano quasi incollati al chiodo nero.
«Che bell’effetto quel biondo a contrasto col nero» disse Gianni alla moglie. Lei finse di non sentire. «Hai capito cosa ti ho detto?» le ripeté lui alzando la voce.
«Ho capito, ho capito fin troppo bene» gli rispose stizzita lei.
«Senti, Marisa, mi vuoi dire cosa ho detto di male?».
«Oh, niente, figuriamoci! Un vero gentiluomo con le parole! Ma se non ci fossi io… come vederti. Avresti inseguito la bionda amazzone».
«Beh, se la metti su questo tono, allora sappi che era da tanto che non vedevo uno spettacolo del genere! Altro che mare!».
La moglie se ne restò immusonita e rigida più che mai sulla sella.
Ore 18.30
Francesco, Mario e Giacomo percorrevano il viale alberato sulla Saab cabriolet.
«Ganza questa macchina! Tuo padre si tratta proprio bene» esclamò Mario.
«Sempre avuto la passione per le macchine» gli rispose Giacomo.
«Già, ti ricordi da bambini come ci divertivamo sulle sue BMW?» aggiunse Francesco.
«Ma soprattutto quando, a primavera, tirava fuori il Mercedes Pagoda. Allora sì che ci guardavano tutti».
«E le Porsche? Ha avuto tutti i modelli: la 911 Targa, la Carrera…» riprese Francesco.
«Per fortuna che non ha comprato la Cayenne: un aborto quel SUV. Per una volta mi ha dato ascolto».
«Ma con cosa gira ora che ti ha prestato la Saab?» chiese Mario.
«Se tu vedessi! Su una Micra… il primo modello della Micra, vecchia e scassata, con la gomma piuma che esce dai sedili!».
«È comico vederlo uscire da quella macchinina, lui che ha sempre viaggiato su auto enormi» ribadì Francesco.
D’un tratto, sulla destra, sfrecciando, li superò la moto.
«Cazzo, ma chi è quella stronza?» inveì Giacomo.
«Dai, seguila» lo incitò Francesco.
«Sì, sì, vediamo dove va» intervenne Mario.
La Saab seguì la ragazza fino sul lungomare. Giacomo guidava in modo spericolato. Quasi in sintonia con le parole di Vasco che uscivano dal Cd: «Voglio una vita spericolata… voglio una vita come Steve Mc Queen».
«E schiaccia quell’acceleratore!» insistette ancor di più Francesco.
«Ci sono quasi… Guardate! Mi sembra ferma al semaforo, ma qui c’è il limite a 50. Se mi fermano, mi fanno un culo così».
«Ma tanto hai tuo padre che paga…» disse con una certa invidia Mario.
«Paga una sega. Mi fa ma un culo doppio!».
Al semaforo riuscirono ad accostarla. Francesco, che sedeva davanti al fianco di Giacomo, allungò una mano sulla schiena nuda della centaura: «Senti bellezza, te lo fai un aperitivo con noi?».
Per tutta risposta la mano guantata sollevò il dito medio e, dando gas, ripartì immediatamente al verde.
I tre ragazzi, invece, rimasero fermi. A Giacomo si era spento il motore. Ormai, persa la speranza di raggiungerla nuovamente, non restò che la battuta di Francesco: «Anche volgare quella troia. Ma che vada a pigliarselo lei…».
Ore 19.45
Era quasi ora di cena. Il professor Verdigi, terminato l’ultimo consiglio di classe, si era messo in macchina, aveva imboccato l’autostrada e calcolava di essere puntuale per riuscire a mangiare con moglie e figli. «Questi maledetti consigli… si sa quando iniziano, ma mai quando finiscono» pensava.
Aveva guidato con prudenza, come sempre. Ora si stava avvicinando all’uscita. Neanche dieci minuti e sarebbe arrivato al casello.
Di colpo sentì uno schianto e gli sembrò di vedere più avanti qualcosa di nero e di biondo volare per aria.
Frenò bruscamente cercando di controllare nello specchietto retrovisore che nessuno gli venisse addosso. Sulla corsia di sorpasso anche una Saab con tre giovani a bordo aveva inchiodato. Dietro di lui una signora di mezza età, alla guida di una piccola Toyota, si era fermata dopo aver visto lampeggiare le sue quattro luci di posizione.
Sulla corsia d’emergenza lo aveva affiancato una coppia in moto che procedeva a passo d’uomo. Dal finestrino aperto sentì la donna dire al marito: «Mi sembra di vedere una moto. Te l’ho sempre detto che sono un pericolo!».
«Piantala, Marisa, piantala di fare la menagramo. Andiamo piuttosto a vedere cosa è successo».
Si stava formando una coda. Il professor Verdigi, sceso dall’auto, si mosse verso il luogo dell’incidente. Di fianco a lui, in silenzio, Giacomo, Francesco e Mario. Dall’altro lato, Gianni e Marisa che continuavano a battibeccare.
Dietro la donna che era alla guida della Toyota.
Aurelio Verdigi superò camminando poche auto e raggiunse quella contro cui aveva sbattuto la moto. La parte anteriore destra della Opel Meriva – nel punto dello scontro – era accartocciata. Pezzi di paraurti a terra.
L’uomo alla guida, ora appoggiato alla fiancata del mezzo, parlava al cellulare. Era disperato. Sulla carreggiata, prona, la centaura.
Anche il distinto signore era sceso dalla sua auto. Ora poteva pensare a tutto, ma non più all’espressione che, solo poche ore prima, gli aveva suscitato la ragazza. Ora se ne stava, senza parole, davanti a quel corpo inerme. Lui aveva visto come la moto aveva tagliato inaspettatamente la strada alla Opel. Lui, il primo della coda che si andava formando.
Il professor Verdigi si chinò sulla giovane. Le mise una mano alla gola per sentire se ancora c’era il battito del cuore.
Ebbe un moto di soddisfazione: il cuore batteva. Allora, con estrema cautela, ne girò il corpo. La camicetta bianca, insanguinata si apriva su un seno sodo e prosperoso. Con delicatezza spostò la chioma bionda che ricopriva il viso.
Due occhi si aprirono e lo guardarono: «Professore…».
«Roberto Baldocchi, ma cosa combini!».
I tre ragazzi, la signora, la coppia e il distinto signore se ne stavano lì, increduli.
La Polizia Stradale si fece largo, mentre le sirene dell’ambulanza si avvicinavano.
«È un mio ex allievo. Istituto Tecnico di ***. Quattro anni fa».
«Capisco» disse uno dei poliziotti «ma per noi è Pamela, un trans che in un modo o nell’altro non fa che crearci problemi. Ci dispiace, professore».
Aurelio Verdigi si levò gli occhiali e si asciugò furtivamente una lacrima. Poi ritornò alla sua auto. Muti lo seguirono per riprendere i loro posti il distinto signore, la signora di mezza età, la coppia in moto, i tre ragazzi.
I barellieri caricarono il corpo. L’ambulanza ripartì a sirene spiegate.
Lucca, 25 aprile 2010
In apertura, foto di Mariapia Frigerio
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