Dopo le elezioni del 18 aprile del 1948 il clima politico in Italia non rimase quello già abbastanza surriscaldato della campagna elettorale. Ma divenne ancor più teso e incattivito: il rischio di un’affermazione comunista aveva consentito alla Dc un trionfo. Un esito straordinario che ne aveva stabilito il predominio nel Paese a scadenza indefinita.
Prevaleva nell’opinione pubblica, infatti, la convinzione di una impossibilità dei comunisti di garantire la struttura democratica e occidentale del regime di libertà e, quindi, di potersi porre come forza di governo.
Del resto, non era certo che i comunisti accettassero i vincoli della nostra costituzione materiale (la collocazione atlantica dell’Italia), anche se riconoscevano quelli della costituzione formale.
Anche i socialisti condividevano con il Pci la politica estera e, nello scontro elettorale, subirono le conseguenze del “patto di unità d’azione” coi comunisti.
Ma mentre i socialisti, dopo i fatti tragici di Ungheria (1956), accetteranno la costituzione materiale, l’evoluzione atlantista del Pci sarà molto più lenta.
In tale contesto, si svolse nell’autunno del 1948 una vivace polemica tra il dirigente comunista Ruggero Grieco e l’economista agrario Manlio Rossi-Doria, ricostruita in modo efficace e puntuale da Emanuele Bernardi nel bel volume “Riforme e democrazia”, edito da Rubbettino nel 2010.
Il professore di Portici aveva pensato di usare il vincolo esterno che si stava costruendo con gli Usa come strumento per una serie di operazioni politiche: rendere le iniziative Dc quanto più possibile non conflittuali con la sinistra, rimuovere i residui corporativi del fascismo e affermare un modello razionale e scientifico di intervento nel Mezzogiorno e, in particolare, nel settore agricolo.
Egli aveva deciso di non militare in un partito. E si era posto l’obiettivo di organizzare un gruppo di tecnici, economisti, industriali e agricoltori progressisti disposti agli investimenti. Un gruppo che avrebbe trovato l’appoggio delle forze socialdemocratiche.
Si trattava di collaborare con il governo a guida Dc da una posizione di forza. E questo grazie alla concentrazione delle competenze e ai legami internazionali che il professore stava intessendo con il partito laburista inglese e, soprattutto, con l’amministrazione americana.
A seguito del lancio del Piano Marshall, soprattutto l’amministrazione Truman guardava con estremo interesse l’impegno di Rossi-Doria che era, in tale sforzo, accompagnato da Giuseppe Medici e Paolo Albertario. Il primo considerato una sorta di “ministro ombra dell’Agricoltura”, molto apprezzato negli ambienti liberali e democristiani; il secondo, rappresentante dell’Italia nel comitato della Fao, era considerato un consigliere molto vicino a Nenni e interlocutore non ostile agli Stati uniti.
Rossi-Doria era sceso più volte in Basilicata e Calabria per approfondire le difficoltà tecniche e politiche nel disegnare progetti di trasformazione e riforma dell’agricoltura. Il professore di Portici si era convinto di una cosa ben precisa: i partiti dicevano ai contadini meridionali una “sarabanda di parole” prive di contenuto e pochi dirigenti politici avevano compreso l’importanza di prepararsi, col massimo impegno e serietà, “al gioco lungo”.
Le diverse azioni di mobilitazione nel Mezzogiorno, soprattutto per le terre incolte e la modifica dei patti agrari, si erano svolte “più nel tentativo di difendere posizioni raggiunte che all’attacco di nuove” e si erano concluse “senza nulla raggiungere e senza nulla consolidare”.
Nel settembre 1948, Rossi-Doria intervenne al convegno dell’Accademia dei Georgofili a Firenze e provocatoriamente invitò i partiti ad abbandonare il “gatto nero” della riforma agraria generale. “Bisogna guardare in faccia la realtà – disse l’economista agrario – e, riconosciuto che una riforma agraria non la possiamo fare, bisogna avere il coraggio di seppellire il gatto nero, che paralizza e terrorizza da tre anni tutta la proprietà fondiaria italiana, grande, media e piccola che sia, e prospettare e condurre con energia una diversa politica”.
Il suo invito a passare “dal mito alla realtà” era fondato su una precisa conoscenza delle resistenze incontrate nei primi lavori relativi alle trasformazioni fondiarie e sul riconoscimento che l’obiettivo di una profonda riforma fondiaria avesse comunque una base scientifica e oggettiva nel difetto di struttura dell’Italia, simile in questo solo alla Spagna e forse al Portogallo, cioè nella dissociazione tra proprietà e impresa.
Per questo suo intervento, Rossi-Doria si beccò dal dirigente comunista Ruggero Grieco il polemico appellattivo di “professore ammazzagatti”. Mentre Carlo Levi gli dedicò un gustoso ritratto con quel nomignolo. In un articolo su “L’Unità” del 29 settembre, Grieco vide nella posizione dell’economista un “approccio tecnocratico” antitetico agli interessi dei contadini e al movimento meridionale. Tacciò quell’approccio come “vecchio”, in continuità con il passato, la conservazione, la reazione.
La Guerra fredda riduceva tutto meccanicamente allo schema amico/nemico. E non si cercarono margini per definire una terza via che evitasse lo scontro frontale.
Inopinatamente, dette manforte alla posizione dei comunisti Ernesto Rossi. In un articolo apparso in “Italia Socialista” del 3 ottobre dal titolo “La gatta di Masino”, l’ex azionista partì da alcune premesse.
Vediamo la prima: per il Pci la riforma agraria non era altro che “uno strumento” che doveva servire “a mettere in agitazione le campagne contro i padroni e contro il governo”.
L’altra: il modello dei comunisti italiani rimaneva quanto fatto in Urss, con la statalizzazione violenta della proprietà privata.
Ma poi concordò con Grieco sul fatto che i tecnici riuniti nel convegno dei Georgofili avevano assunto una “posizione conservatrice”. “Gatto morto o nero – scrisse l’economista-giornalista – quel che importa è che i Georgofili vorrebbero seppellire ogni idea di riforma”. “Il meglio è nemico del bene”, osservò lapidariamente.
Rossi-Doria rispose a Grieco e a Rossi su “Italia Socialista” del 9 ottobre. Egli era animato – precisava – da un’idea di politica agraria che non si esauriva negli aspetti fondiari. Pur continuando a sostenere la necessità di espropriare il latifondo in alcune aree del Paese, più incisiva gli appariva una riforma dei contratti agrari che desse maggiore forza alle organizzazioni sindacali. Ma soprattutto, bisognava puntare sugli interventi di ammodernamento delle infrastrutture agricole e del territorio rurale e sull’avvio di piccole e medie imprese industriali collegate all’economia agricola.
Nonostante l’asprezza della polemica, il dialogo continuò. Grieco scrisse al professore di Portici una lettera personale: “Egregio Rossi-Doria, è verosimile che tu ti sia dispiaciuto dei miei recenti attacchi. Ma neppure io e noi siamo soddisfatti del tuo atteggiamento! La mia è stata una risposta. Se quanto hai detto e scritto tu, lo avesse detto e scritto un altro, anche G. Medici, non ci avremmo fatto gran caso. Ma da te non ce lo aspettavamo, sebbene le tue incertezze di sempre potevano lasciarci attendere qualche sorpresa, anche stavolta”.
La polemica del gatto nero fu oggetto di attenzione nei partiti italiani e all’estero. Il riformismo rossidoriano s’inseriva coerentemente nella strategia del Dipartimento di Stato per l’Italia. McCall scrisse a Rossi-Doria nel novembre: “Sono rimasto particolarmente colpito dal resoconto del dibattito che hai sostenuto coi delegati comunisti nel convegno di Firenze. Questo è esattamente quel che mi aspetto da una persona col tuo coraggio e intelligenza”.
Salvemini, da Washington, commentò a sua volta la vicenda, chiedendo a Ernesto Rossi in una lettera del 15 novembre: “Sento anch’io che la soluzione Rossi-Doria lascia le cose come sono, e potrebbe essere accettata da Croce, De Gasperi, Sforza, Saragat, Pacciardi et omne genus musicorum. Ma respinto lo statu quo, o quel qualcosa di assai vicino allo statu quo che Rossi-Doria propone, che fare? Che cosa proporre? Mettersi a ripetere le corbellerie e le bricconate dei comunisti no. E allora?”.
Nessuno mosse un dito per trovare soluzioni di compromesso e preparare la strada di una riforma che nascesse da una comunanza di intenti, pur in una distinzione di ruoli tra maggioranza e opposizione.
Rossi-Doria, Medici e Albertario fino all’ultimo predisposero soluzioni tecniche che avvicinassero le posizioni politiche dei due schieramenti. Lo fecero durante la fase delle occupazioni di terra che si conclusero con il carico di sacrifici di vite umane. Per mano della polizia, a Melissa caddero Francesco Nigro, Giovanni Zito e Angelina Mauro. E a Montescaglioso Giuseppe Novello. I tentativi di pervenire a soluzioni condivise furono fatti anche nel corso del dibattito parlamentare sui disegni di legge del governo. Ma non ci fu verso per smuovere le rigidità degli schieramenti contrapposti.
Il muro contro muro proseguirà anche nella fase di attuazione della riforma e lo scontro politico diventerà ancor più esacerbato quando diventerà chiaro che il movimento per la terra e per il Mezzogiorno sta subendo una cocente sconfitta.
Quali saranno le cause di questo esito disastroso? La riforma agraria innanzitutto; una riforma gestita solo dalla Dc contro la sinistra. E poi l’emigrazione non governata ma soluzione indivuale del proprio destino nelle stesse forme con cui era avvenuta nel periodo post brigantaggio. E ancora l’avvio della rottura tra Pci e Psi che sarà sancita al congresso socialista di Venezia (1957). E infine l’avvento (o ritorno) della sociologia con Scotellaro e Marselli all’Osservatorio di Portici diretto da Rossi-Doria, con Ferrarotti collaboratore di Olivetti a Ivrea, con Ceriani-Sebregondi alla Svimez di Saraceno, con Ardigò collaboratore di Medici all’Ente Maremma e Fucino, con Danilo Dolci a Partinico in Sicilia e ancora con altri studiosi e ricercatori. I quali, in diverse aree del Paese, contribuiranno a dare una prima picconata all’egemonia crociana e a quella marxista nella cultura italiana.
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