Visioni

Cosa ci insegna la storia. Il ruolo delle donne nelle campagne

Alfonso Pascale

La prima Grande Guerra Mondiale vide il coinvolgimento di due milioni di contadini che dovettero lasciare le campagne per raggiungere il fronte. In tutta l’Europa, per la prima volta, un conflitto bellico assumeva una dimensione di massa: 65 milioni di uomini furono chiamati alle armi.

Per molti la guerra fu un motivo per uscire, per la prima volta, dalle proprie contrade e conoscere un mondo diverso. E da una simile esperienza, chi rimaneva ancora in vita tornava a casa profondamente cambiato.

Un equilibrio, già precario, su cui si reggeva un mondo rurale abituato a contare sull’intenso sfruttamento della popolazione, si rompeva. Infatti, non c’erano ancora macchine e prodotti chimici in quantità sufficienti per rendere il lavoro agricolo meno gravoso e usurante e per sfamare adeguatamente ogni bocca. Il richiamo degli uomini alle armi significò sottrarre braccia all’agricoltura e chiedere al settore anche di mantenere lo stesso livello di produttività: i soldati che andavano al fronte dovevano comunque essere nutriti.

Le conseguenze di tale situazione ricaddero sulle donne. Meno drammatiche per le mezzadre, le piccole proprietarie e le fittavole: assunsero in fretta nuove responsabilità e nuove mansioni in azienda. Per quanto potevano, riuscivano a trarre il massimo rendimento dalla terra che richiedeva troppo lavoro rispetto alle forze disponibili. La situazione era, invece, penosa per le braccianti alle prese con le fluttuazioni del lavoro stagionale e la compressione dei salari. Su tutte gravava la paura della carestia. Una sciagura che avrebbe aumentato il rischio di oltrepassare la soglia di sussistenza a cui a stento riuscivano a rimanere aggrappate.

Nelle campagne e nelle città, le donne furono chiamate a rispondere alle esigenze dell’economia di guerra. Ad esse venne richiesto un impegno gravoso per affrontare l’allungamento dei tempi e l’accelerazione dei ritmi di lavoro, la riduzione della redditività dei campi e la povertà dei salari, l’ancor più difficile conciliazione fra le attività extradomestiche e la cura della famiglia, ora ridotta a un insieme di bambini, vecchi e malati.

Nelle campagne italiane, nacquero spontaneamente e in modo diffuso movimenti di lotta che vedevano protagoniste le donne contro gli ammassi obbligatori e il carovita. Cortei di contadine si muovevano nei centri abitati e prendevano d’assalto municipi e magazzini. Occupavano demani comunali e terre incolte di proprietà privata.

Si dovette attendere la fine della guerra per vedere ridursi l’intensità delle proteste. Fu determinante la promessa di distribuire la terra ai contadini-soldati. Fu lo stesso generale Armando Diaz a farlo subito dopo il disastro di Caporetto, come ci racconta Luigi De Pascalis nel suo bel romanzo La pazzia di Dio. Ma la promessa non fu immediatamente mantenuta. Sicché le associazioni degli ex combattenti sollecitarono e guidarono le occupazioni di terre nel Lazio e nell’Italia Meridionale. Le donne avevano guidato da sole le lotte durante la guerra. E ora, insieme agli uomini, organizzavano il movimento.

Fu solo a quel punto che il governo Nitti si vide costretto ad approvare il decreto Visocchi, che mirava a legalizzare e regolare le occupazioni. Si trattò però di un provvedimento insufficiente che non rispondeva alla fame di terra.

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