Visioni

La folle ricerca dell’utopia

Alfonso Pascale

Scrive il filosofo Vito Mancuso che tra follia e utopia vi è un forte legame, tanto forte quanto l’amicizia che legava tra loro Erasmo e Tommaso Moro, gli autori rispettivamente dell’Elogio della follia e di Utopia.

L’opera di Erasmo è dedicata a Tommaso Moro. E il titolo originale suona Moriae encomium. C’è, dunque, una significativa assonanza tra il termine “moria”, che sta per follia, e il cognome dell’umanista inglese, More.

Il termine utilizzato da Erasmo per follia, “moria”, in latino non esiste (follia in latino si dice “stultitia”). È pertanto la latinizzazione del vocabolo greco “morìa” introdotta da Erasmo proprio al fine di creare l’assonanza con il cognome dell’amico.

Qualche anno dopo, nel 1516, Tommaso Moro scrisse la sua Utopia e il titolo completo dell’opera era Libello invero aureo, e non meno utile che dilettevole, sull’ottima forma di Stato e sulla nuova Isola di Utopia, composto dall’illustrissimo signor Tommaso Moro, cittadino e vicesceriffo della nobile città di Londra.

La parola “utopia”, come “morìa”, non esisteva prima di Moro. Egli la inventò ricalcandola dal greco antico. Fino a poco prima di andare in stampa, Moro pensava di intitolare la sua opera “Nusquama”, dal latino “nusquam”, “in nessun luogo”.

L’utopia è il luogo che non c’è ma che s’intravede. Dunque, una follia, cioè una disposizione della mente a vedere una cosa invisibile.

Scrive Dietrich Bonhoeffer: “Compito della nostra generazione non sarà ancora cercare grandi cose, ma salvare e preservare la nostra anima dal caos e vedere in essa l’unica cosa che possiamo trarre come bottinodalla casa in fiamme. Con ogni cura vigila sul cuore perché da esso sgorga la vita. Noi dovremo salvare, più che plasmare, la nostra vita; sperare, più che progettare; resistere, più che avanzare. Ma noi vogliamo preservare a voi giovani, alla nuova generazione, l’anima con la cui forza voi dovete progettare, costruire e plasmare una vita nuova e migliore”.

L’utopia diventa così per noi un paesaggio dell’anima. Qualcosa che noi ci impegniamo a preservare, a renderlo resistente, a corroborarlo di speranza. Ma che altri, dopo di noi, progetteranno, costruiranno e plasmeranno per rendere la loro vita migliore.

 

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