Il Green Deal Europeo si gioca tutto sul concetto di condizionalità
Per questo occorre discuterne fino in fondo e affrontare le nuove dinamiche.Invece, come è accaduto nel corso degli ultimi vent’anni, i dibattiti sui negoziati europei si sono sempre concentrati sulla quantità di spesa e mai sugli obiettivi strategici, sulle cose importanti da fare e sulle ambizioni di un paese che voglia davvero contare qualcosa nel mondo. L’opzione della sostenibilità, non va più considerata un costo, un vincolo o un peso da mitigare o schivare, ma una grande opportunità per competere meglio nel mercato globale
Nelle proposte della Commissione ci sono notevoli opportunità, ma anche contraddizioni e manchevolezze. Il giudizio sul “pacchetto” agricolo non si può limitare all’entità delle risorse finanziarie che si metteranno a disposizione. Non è più il tempo dei soliti politici contabili che, ad ogni negoziato europeo, fanno solo i conti della serva sui miliardi in più portati a casa. Ad essi poco importa se si tratta di spesa inefficace, inefficiente, improduttiva, spesso ammantata di ideologismi bucolici e antiscientifici o di obiettivi fantasiosi, che deprimono economie e capacità imprenditoriali e frustrano aspettative, soprattutto tra i giovani.
L’agricoltura è il settore che, più d’ogni altro, dal 1999 (quando si svolse il negoziato su Agenda 2000 durante il governo D’Alema con De Castro ministro delle politiche agricole) fino ad oggi, ha subito le conseguenze di questo modo sbagliato di porsi con l’UE. In questi vent’anni, i dibattiti sui negoziati europei si sono sempre concentrati sulla quantità di spesa e mai sugli obiettivi strategici, le cose importanti da fare, le ambizioni di un paese che voglia davvero contare qualcosa nel mondo.
La Presidente della Commissione è stata chiara nel proporre il nuovo patto Next Generation Eu per il futuro. Queste sono le parole da lei utilizzate: «Il nome (del patto) deriva da una generazione che è responsabile, consapevole e crede nel futuro, crede nello Stato di diritto e nella dignità umana, che è determinata a chiedere conto ai Governi del loro operato nel contrastare il cambiamento climatico e salvare la natura. È una sorta di idealismo europeo fondato sulla convinzione che l’Europa deve battersi per il meglio».
Dunque, in futuro non ci sarà più un atteggiamento tollerante riguardo alle condizionalità sui sussidi poiché sono proprio le condizionalità l’oggetto del nuovo patto. Queste verranno verificate formalmente nella procedura del “semestre europeo”, un metodo che normalmente si applica ogni anno quando si approvano i bilanci nazionali. Per esempio, la strategia per la biodiversità prevede la costruzione di un sistema di governance definendo specifici ruoli e responsabilità degli attori istituzionali e la definizione di un set di indicatori per facilitare la verifica dei risultati anche nel monitoraggio previsto dal “semestre europeo”. Aspetti finanziari e di coinvolgimento del business su queste tematiche s’integreranno con il rinnovo della strategia per la finanza sostenibile e la tassonomia Ue per le attività sostenibili, le attività di reporting non finanziario. La Commissione promuoverà la fiscalità ecologica incoraggiando misure da adottare dagli stati membri.
Per questa ragione le condizionalità dovranno essere discusse adesso, apertamente e approfonditamente, senza ambiguità e infingimenti, come si è fatto finora. Ma andando a guardare bene quello che è strategico e quello che non lo è; quello che è realmente fattibile ed utile e quello che non è coerente con una concezione scientificamente corretta della sostenibilità.
L’agricoltura italiana dovrebbe fare propria fino in fondo l’opzione della sostenibilità, non considerandola più un costo, un vincolo, un peso da mitigare o schivare, ma una grande opportunità per competere meglio nel mercato globale. Si tratta di abbandonare l’approccio: «Mi adeguo obtorto collo alle vostre astruse condizionalità, ma in cambio voglio più aiuti diretti». E assumere un altro approccio: «Sono già un agricoltore sostenibile e voglio esserlo ancor di più perché conviene a me e alla società, ma voglio discutere nel merito le strade migliori da percorrere».
Gli agricoltori europei hanno tutto l’interesse a farsi alfieri della lotta al cambiamento climatico come terreno nuovo della competitività globale tra modelli produttivi e tecnologici per conseguire lo sviluppo sostenibile. Si tratta di mettersi alla testa degli investitori “verdi” europei e giocare la propria partita coi ritrovati della nuova rivoluzione tecnologico-scientifica: con l’agricoltura di precisione, quella dei robot, dei droni, del digitale, della blockchain, della chimica pulita, delle nuove biotecnologie (transgenesi, cisgenesi, intragenesi, ZFN, Talen, CRISPR, Prime Editing, ecc.).
Assumere una coerenza ambientalista comporta per gli agricoltori una serie di conseguenze che non si possono eludere. La prima è far propria una coerenza europeista: la strategia della sostenibilità si può perseguire solo se si rilancia il processo della integrazione europea. Il tema della lotta ai cambiamenti climatici è inserito nell’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE), come un aspetto della politica ambientale. In particolare, è riferito alla politica che riguarda la promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale. La politica ambientale è una competenza concorrente dell’Unione e degli stati membri. Per rendere efficace l’azione dell’UE sarebbe necessario un emendamento al Trattato sull’UE (TUE) di questo tenore: «L’Unione persegue una politica unionale sovrana, per contrastare i cambiamenti climatici, a tal fine promuove e instaura direttamente trattative e accordi internazionali e planetari».
Ci sono, dunque, sovrapposizioni di competenze tra il livello unionale e quello dei Paesi membri in materia ambientale; la materia “lotta al cambiamento climatico” è assente nei Trattati e ci sono intrecci tra la materia “ambiente” e quella “agricoltura” che rendono complesso il processo legislativo sul Green Deal Europeo e che andrebbero sciolti.
Assumere una coerenza ambientalista comporta per gli agricoltori un’ulteriore conseguenza: abbandonare la logica assistenzialistica
Le sfide globali che l’umanità è chiamata ad affrontare richiedono, pertanto, una configurazione giuridica della “sostenibilità” e dell’”agricoltura sostenibile” intese come una nuova frontiera tecnologica per affermare modelli produttivi moderni.
Assumere una coerenza ambientalista comporta per gli agricoltori un’ulteriore conseguenza: abbandonare la logica assistenzialistica dell’intervento pubblico in agricoltura. Bastano alcuni dati per comprendere quanto questa logica sia ancora imperante: il bilancio della PAC per il periodo 2014-2020 rappresenta il 38% circa del bilancio generale dell’UE; l’importo totale della spesa PAC per il periodo di 7 anni è pari a 408,31 miliardi di euro; i “pagamenti diretti”, pari a 294 miliardi, rappresentano il 73% della PAC. Nel 2018, solo agli agricoltori italiani sono stati erogati circa 2,9 miliardi di euro per i “pagamenti diretti”. Si tratta di 300 euro ad ettaro che si percepiscono solo perché si è proprietari di terra. A un agricoltore che nel 2018 possedeva 50 ettari di terra, si erogavano circa 15 mila euro all’anno che divisi per 12 mensilità ammontavano a poco più del “reddito di cittadinanza”, una misura assistenzialistica destinata in Italia ai disoccupati. Per lo stesso anno, allo sviluppo rurale (cioè agli investimenti in ricerca, innovazione, ecc.) sono stati riservati solo 1,27 miliardi di euro. La difesa ad oltranza della logica assistenzialistica dell’intervento pubblico in agricoltura ha fatto sì che una parte considerevole della PAC perdesse il suo connotato di “politica comune”.
Se si legge la relazione del Comitato Economico Sociale Europeo (CESE), in cui si esamina l’evoluzione della normativa riguardante i “pagamenti diretti”, si può facilmente osservare il cambiamento in corso (Relazione informativa La riforma della PAC: modalità, diversità, effetti redistributivi e altre scelte degli Stati membri nell’applicazione della riforma dei pagamenti diretti. Relatore Mario Campli, 2015 [QUI]). Il relatore fu affiancato da due esperti: il prof. Franco Sotte (Università Politecnica delle Marche) e la dott.ssa Francesca Bignami (Copa).
Questa relazione è molto articolata perché esamina le decisioni prese dagli stati membri nell’ambito delle settanta aree di intervento attribuite alla loro discrezionalità. Nella originaria proposta legislativa della Commissione gli ambiti in cui gli stati membri avevano piena autonomia decisionale erano venti. Il Regolamento – approvato in co-decisione dal Parlamento e dal Consiglio (frutto della singolare negoziazione tra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione, detto “trilogo”) ha accresciuto di altre cinquanta le aree di un discrezionale ed autonomo intervento degli stati membri, nella politica “comune” per l’agricoltura.
Qual è il significato di tale evoluzione? Come mai si è giunti ad un esito siffatto? Da una semplice lettura della lista delle attribuzioni risulta che si tratta di un insieme disorganico di materie e di scelte, alcune di maggiore rilevanza, altre di dettaglio. Con tutta la buona volontà non è stato possibile al CESE individuare alcuna strategia sottostante la flessibilità offerta agli stati membri. E le decisioni adottate dai governi nazionali non hanno fatto altro che produrre automaticamente, nell’insieme dell’Unione, un effetto moltiplicatore sia nella quantità delle scelte sia nella diversità delle stesse. Un effetto domino che ha accresciuto a dismisura la complessità e la farraginosità di questa tipologia di intervento pubblico che produce effetti redistributivi non valutabili in quanto manca una chiara strategia a livello unionale e manca anche un quadro coerente e credibile delle presunte strategie nazionali adottate.
A condurre il “trilogo” – un luogo dove si amministra di fatto (con la riservatezza del caso) il finanziamento della PAC e si definiscono le sue regole cogestite – è stato l’on. De Castro, all’epoca presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo. Per 24 anni questi è stato un riferimento assai potente delle lobby agricole. E gli interessi di quest’ultime sono stati mediati al tavolo negoziale del “trilogo” con un esito disastroso: da “politica comune” la PAC è diventata un vestito di Arlecchino che accontenta una miriade di esigenze particolari senza alcun disegno strategico unificante.
La ripartizione dei “pagamenti diretti” tra gli agricoltori ha alimentato una profonda avversione delle aree rurali nei confronti dell’UE. Il motivo si può leggere negli stessi rapporti pubblicati annualmente dalla Commissione Europea: in essi risulta che l’80 % dei pagamenti diretti va a beneficio di appena il 20 % degli agricoltori. Una distribuzione squilibrata che non ha alcuna giustificazione perché non risponde ad alcun obiettivo o criterio selettivo se non l’ettaro o la rendita.
Nell’anno finanziario 2014 (che si riferisce ai pagamenti del 2013) a 7,52 milioni di beneficiari sono stati complessivamente erogati 41,7 miliardi di euro. Ma di tale somma solo 647 milioni sono stati percepiti dai 2,5 milioni di agricoltori che hanno ricevuto “pagamenti diretti” di importo inferiore ai 500 euro ciascuno. Gli altri 5 milioni di agricoltori si sono divisi oltre 41 miliardi.
Rielaborando i dati della Dg-Agri (Direzione generale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale della Commissione Europea) si è calcolato che circa il 55% dei “pagamenti diretti” è riservato ai 750 mila agricoltori con il reddito più alto. Il risultato, oltre a mostrare l’elevata disuguaglianza della distribuzione dei “pagamenti diretti” rispetto al reddito, conferma quanto si poteva intuitivamente supporre: agli agricoltori con il più elevato reddito agricolo vanno i “pagamenti diretti” di importo maggiore.
Va inoltre rilevata una incongruenza tra l’importanza che l’UE annette all’obiettivo del ricambio generazionale nelle imprese agricole e l’impostazione dei pagamenti diretti che spinge in alto la rendita fondiaria. Tenendo conto delle proporzioni finanziarie tra i due obiettivi (ingresso dei giovani e sostegno al reddito) si può ben dire che la PAC ostacola sia il turnover nelle campagne, sia l’ampliamento delle dimensioni delle aziende.
[fine quarta puntata, prosegue]
LEGGI ANCHE
Cosa significa Next Generation Eu
La sfida del Green Deal Europeo
Luci ed ombre delle proposte per la transizione verde dell’agricoltura
La foto di apertura è di Olio Officina
Per commentare gli articoli è necessario essere registrati
Se sei un utente registrato puoi accedere al tuo account cliccando qui
oppure puoi creare un nuovo account cliccando qui
Commenta la notizia
Devi essere connesso per inviare un commento.