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La protesta degli agricoltori, un disagio incompreso

Gli agricoltori si sono accorti che nelle istituzioni europee e nazionali c’è tanta confusione. Infinite sono anche le contraddizioni. Hanno intuito l’incertezza sul futuro quando la Commissione lanciò il Green Deal, definendo gli obiettivi della transizione ecologica. Gli agricoltori europei non sono però i nemici dell’ambiente. Non vogliono arretrare di un solo millimetro rispetto all’obiettivo della neutralità climatica. Chiedono tuttavia razionalità e buon senso nella scelta degli strumenti da applicare

Alfonso Pascale

La protesta degli agricoltori, un disagio incompreso

Gli agricoltori non sono piagnoni e non sono nemmeno viziati. Non difendono privilegi e rendite, sbattendosene dell’ambiente. Gli agricoltori prendono i trattori e manifestano il loro disagio quando annusano congiunture critiche.

Ci sono delle fasi nella storia (di un’organizzazione, di un sistema, di un Paese) in cui si aprono finestre di opportunità, momenti in cui è possibile prendere percorsi non previsti, in cui i leader politici o coloro dotati di potere decisionale possono fare scelte relativamente incondizionate.

Tali scelte, prese in quelle congiunture critiche, definiscono a loro volta il percorso che verrà poi seguito.

Una volta che si è chiusa la congiuntura critica, e le scelte si sono istituzionalizzate, si creeranno dinamiche politiche secondo una direzione prestabilita (path dependency).

Se si allunga lo sguardo alle nostre spalle, vediamo che gli agricoltori più volte hanno manifestato nelle forme in cui protestano oggi. Non è una novità.

Lo hanno fatto nella prima metà degli anni Sessanta, quando a Bruxelles si costruivano le regole della Pac.

Poi sono tornati a prendere i trattori tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, quando, senza più il Muro a Berlino, si progettavano l’unione economica e monetaria europea e l’organizzazione mondiale del commercio. Guidavano le manifestazioni a Bruxelles, unitariamente, Cia, Coldiretti e Confagricoltura.

Infine, si sono mobilitati tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila quando è sembrato che l’Ue si stesse dando una costituzione e gli scambi internazionali si potessero orientare verso obiettivi di sviluppo e di riequilibrio. Ma già allora le organizzazioni di rappresentanza andavano ognuna per proprio conto. E gli agricoltori incominciarono ad autorganizzarsi.

Oggi gli agricoltori tornano nelle piazze perché hanno capito che le prossime elezioni europee non saranno una semplice conta dei voti per misurare i rapporti di forza all’interno degli Stati. Ma stiamo per giocarci le sorti dell’Ue. La quale o completerà nei prossimi due anni il processo d’integrazione o è destinata a frantumarsi. Che significa in parole rudi: niente più soldi della Pac, niente più moneta unica, niente più mercato unico.

Gli agricoltori avvertono nell’aria questi rischi.

Si sono accorti che le cose si mettevano male quando la Commissione ha lanciato il Green Deal e ha definito gli obiettivi della transizione ecologica per l’agricoltura.

Le percentuali di riduzione dell’uso di agrofarmaci, di fertilizzanti, di antimicrobici negli allevamenti e in acquacoltura e l’ammontare dei terreni coltivati da destinare ad usi non produttivi non avevano una base scientifica ma erano dettati da visioni ideologiche. Così l’intento di ampliare a dismisura l’agricoltura biologica non nasceva da una razionale valutazione degli esiti di tale scelta ma esclusivamente dalla volontà di attrarre consensi.

Gli agricoltori si sono accorti che nelle istituzioni europee e nazionali su questi temi c’è tanta confusione e ci sono infinite contraddizioni.

Ad un certo punto sono spuntati studi scientifici che denunciavano un fatto allarmante: la strategia europea del Green Deal per l’agricoltura avrebbe portato ad un aumento delle importazioni dai paesi terzi. Ma nessun editorialista ha dedicato un articolo di prima pagina a questi studi.

Dovremmo invece riflettere bene su quello che bisogna fare. In un mondo che deve affrontare il dramma della fame e della denutrizione, non si possono spingere le popolazioni più povere a mettere a coltura nuovi terreni per consentire a noi europei di sfamarci.

L’obiezione che spesso viene sollevata a tale rilievo è che produrre cibo nell’Ue costa troppo. E, dunque, per i consumatori europei sarebbe più conveniente acquistare prodotti importati. Ma questa considerazione non tiene conto che il costo maggiore dipende dalle più elevate tutele del lavoro e dell’ambiente.

Ci vogliono, invece, clausole sociali e ambientali negli accordi commerciali e d’investimento. Altrimenti importare di più significherebbe avallare, nei paesi con regimi autoritari, sfruttamento del lavoro e disastri ecologici. E non si premierebbero quei paesi poveri o emergenti che si sforzano di rispettare standard minimi di protezione dei lavoratori e dell’ambiente.

Gli agricoltori europei non sono nemici dell’ambiente. Non vogliono arretrare di un solo millimetro rispetto all’obiettivo europeo della neutralità climatica. Sono ben consapevoli che l’agricoltura deve contribuire a raggiungere tale obiettivo. Ma chiedono solo un pizzico di razionalità e di buon senso nella scelta degli strumenti da applicare.

Ci sono, ad esempio, pratiche agricole sostenibili che non vengono diffuse, come quella di seminare direttamente su terreni non lavorati. Occorrerebbe diversificare le colture e gli agro-ecosistemi. Bisognerebbe finalmente aprire le porte all’applicazione delle biotecnologie in agricoltura.

La sicurezza alimentare europea non può fare a meno dell’intensificazione sostenibile: oggi il sapere scientifico ci consente di farlo. Ci vuole, pertanto, più ricerca e più innovazione.

Gli agricoltori europei hanno assistito esterrefatti all’approvazione della Pac 2023-2027. I regolamenti sono stati il frutto di lunghe e defatiganti mediazioni tra Parlamento europeo e governi nazionali.

Pertanto, sono corresponsabili delle decisioni, sia i parlamentari europei che i ministri. Ma quando gli agricoltori parlano con loro, ogni istituzione scarica la colpa sull’altra.

Ma non è finita qui. Se un agricoltore si rivolge ad un parlamentare europeo per sottoporgli un problema che deve affrontare l’Unione, gli viene risposto che non c’è soluzione. Il parlamentare europeo (udite, udite!!!) non ha l’iniziativa legislativa. Tutti i parlamentari di questo mondo hanno l’iniziativa legislativa altrimenti perché i cittadini dovrebbero eleggerli. Solo il Parlamento europeo può al massimo fare un ordine del giorno o una risoluzione per supplicare la commissione di predisporre una proposta di regolamento. Solo a quel punto, il parlamentare a cui ci rivolgiamo potrà dire la sua.

Se così stanno le cose, ci vuole un progetto per dare una governance efficace e democratica all’Unione. Questa è la grande questione posta oggi dagli agricoltori. Una questione che si può affrontare solo modificando i Trattati.

L’art. 10 del TUE recita: «I cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo». Questo significa che se il 7 giugno prossimo andremo a votare, vogliamo essere certi che il nostro voto servirà a qualcosa. I parlamentari che eleggeremo devono avere l’iniziativa legislativa. Essi poi devono dare la fiducia ad un esecutivo che governi l’Unione con un presidente che sia l’unico presidente dell’Unione.

Avranno il nostro voto i candidati che assumeranno questo impegno preciso: una volta eletti, nella prima seduta, reclameranno il diritto di legiferare senza aspettare l’imbeccata della commissione o dei governi nazionali.

I parlamentari che eleggeremo devono poter approvare un bilancio aperto con cui affrontare sfide strutturali. Un bilancio basato su risorse proprie, sincronizzato con la durata del Parlamento europeo (cinque anni e non sette anni come ora), utilizzato da un potere esecutivo portatore di una visione comune, controllato sia dai cittadini europei che dai governi nazionali.

Ma c’è anche un’altra modifica da fare ai Trattati. Le competenze in materia di “agricoltura” andrebbero “sdoppiate”. Bisogna distinguere in modo razionale ed efficace le materie che dovrebbero rimanere nella competenza esclusiva dell’Ue e le materie che dovrebbero tornare nella competenza degli Stati membri.

Sarebbe opportuno che la materia “sicurezza alimentare” diventasse una materia di esclusiva competenza unionale, senza più interferenze da parte degli stati membri. Così come già è per la politica commerciale.

Non così dovrebbe essere per i “pagamenti diretti”: i quali già sono attribuiti di fatto alla competenza degli Stati membri e andrebbero assegnati ad essi anche formalmente. Quanto tempo speso in inutili e faticose discussioni si risparmierebbe se si facesse questa piccola grande riforma. E quanta burocrazia in meno ci sarebbe.

Alcuni propongono una revisione di medio termine della Pac senza cambiare la governance dell’Ue. È una presa in giro. Se tutto resta fermo, una proposta di revisione della Pac potrà essere esaminata solo nel 2025 e, dunque, riguarderebbe solo gli ultimi due anni della programmazione.

Tanto vale affrontare subito dopo le elezioni europee la riforma dei Trattati. Senza la riforma dei Trattati, l’Ue si disintegra. E non ci saranno più né la Pac né altre politiche europee.

Ma per discuterne ci vogliono le proposte. Spetta alle organizzazioni professionali agricole e ai partiti formularle con chiarezza. La “rivolta” degli agricoltori sta ponendo tale questione. Discutiamone.

In apertura, olivi terrazzati in Liguria, foto di Olio Officina

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