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I musei della produzione olearia sono incubatori di popoli e cultura

A Olio Officina Festival l’architetto e ricercatore Antonio Monte ha presentato un viaggio cominciato a fine anni Ottanta, e tuttora in corso, attraverso i più importanti centri produttivi della olivicoltura italiana. Dalla Puglia fino alla Liguria, il lavoro di restauro si è sempre più arricchito restituendo preziosi frammenti, immagini e progetti conservati in tutto il territorio

Chiara Di Modugno

I musei della produzione olearia sono incubatori di popoli e cultura

Alla dodicesima edizione di Olio Officina Festival l’architetto ricercatore Cnr-Ispc, nonché vicepresidente Aipai-Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale Antonio Monte ha raccontato, attraverso una ricca documentazione iconografica che vi riproponiamo, l’immenso valore di quelli che sono i luoghi della produzione olearia attraverso due vie.

La prima è quella che raggruppa i Musei di sito, dove ancora oggi vengono conservati tutti gli strumenti in passato impegnati nel ciclo produttivo dell’olio.

La seconda vede come protagonisti i Musei dell’olio, all’interno dei quali sono state ricreate le tipiche ambientazioni di un tempo.

I musei sono case dove si conservano i pensieri del passato, affermava Marcel Proust.

«Non ha senso parlare di un luogo se non racconta la propria storia – sostiene Antonio Monte – Ed è proprio quello che fanno i molini da olio, che in Terra d’Otranto si chiamano trappeti ma in altre zone d’Italia si chiamano anche molini, torchio, frantoio da olio e, successivamente quando siamo passati dalla forza animata alla forza inanimata, si è iniziato a parlare di oleifici moderni. Questi luoghi raccontano la storia, gli aspetti sociali ed economici di un popolo e delle comunità locali, l’evoluzione delle strutture produttive e il progresso tecnologico con l’introduzione dell’energia a vapore. Prima dell’affermarsi delle nuove tecnologie i molini venivano chiamati diversamente. Avete mai sentito il termine “a sangue?” oppure a tiro, a bestia? Ecco, venivano definiti con queste terminologie per evidenziare il fatto che venivano azionati da forza manuale, a braccia o idraulica, quando c’era la possibilità di sfruttare l’energia idraulica, successivamente sostituita dall’energia a vapore, una grandissima invenzione tecnologica che ha portato alla nascita di nuove macchine per lo svolgimento dei cicli produttivi».

Come premesso, quando si affronta il tema dei musei della produzione olearia occorre dividere le due tipologie esistenti: i Musei di sito e i Musei dell’olio.

«I primi sono tutte quelle strutture – di cui sono stato anche progettista e direttore dei lavori di circa una quindicina di trappeti ipogei – dove avveniva la produzione dell’olio lampante, sì, il tanto demonizzato lampante che però ha costituito la principale risorsa economica della Terra d’Otranto delle provincie di Legge, Brindisi e Taranto. Tali musei sono stati lasciati esattamente come un tempo, salvo qualche intervento di recupero, a cui ho preso personalmente parte, e di musealizzazione fine a sé stessa facendo ben riconoscere a chi visita una struttura la sua storia e come avvenivano i processi produttivi» spiega.

Quelli che seguono sono alcuni scatti che immortalano i lavori eseguiti in più areali di produzione, con brevi descrizioni a cura di Antonio Monte.

«Nei nostri lavori abbiamo sempre cercato quanto più possibile di conservare l’identità delle strutture e delle macchine che erano presenti. In questa foto siamo nel 1995 in una delle prime strutture, che in questo caso si tratta di un frantoio ipogeo. Si tratta di ambienti prevalentemente piene di terra recuperate come uno scavo archeologico».

«L’immagine che segue ritrae l’inaugurazione del 1999, ricostruendo i torchi alla calabrese, alla genovese e tutta la vasca per la molitura per avere la possibilità di descrivere come avveniva il processo produttivo».

«Mentre di seguito è possibile osservare un trappeto semi-ipogeo, un trappeto a trazione animale, e diventa, con l’introduzione dell’energia idraulica attorno agli anni Quaranta, a trazione inanimata. Alla fine degli anni Cinquanta è stato poi completamente abbandonato e oggetto di intervento di recupero tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila. Si trova a Tuglie e abbiamo conservato le macchine che erano presenti».

A seguire, il risultato finale.

«Tra il 2011 e il 2014 abbiamo invece eseguito un intervento a un frantoio collocato sotto una piazza».

«Nelle immagini che seguono, il maestro d’ascia realizza la vite a torchio alla genovese e il posizionamento del torchio nel proprio alloggiamento».

E questo è il risultato finale dopo il recupero nel 2014.


«L’obiettivo è sempre quello di raccontare come avvenivano i processi di produzione. Con il comune di Melpignano abbiamo pensato un progetto di valorizzazione che permetta di visitare tutte e sette le strutture produttive».

 

«Mentre a Fasano, come si vede di seguito, questo museo di sito racconta la struttura, l’evoluzione tecnologica delle macchine con i torchi a vite, in legno, alla genovese, e poi i torchi, gli strettoi, in ferro di una fonderia del posto con l’argano dove venivano legati i torchi e con l’evoluzione tecnologica della vasca che non è più a una ruota ma bensì a tre macine».

«Questa è un’altra bellissima struttura a Cisternino, con anche qua una evoluzione tecnologica, sempre torchi in legno, strettoi in ferro, prese idrauliche della ditta Francesco De Blasio di Bari. Oltre a essere un museo accoglie anche eventi».

«A Grottaglie è invece conservato il trappeto dormiente, chiamato così perché conserva questa batteria di torchi binati alla genovese».

«Questo in Basilicata è uno degli ultimi interventi di recupero a cui ho preso parte. Vi è il torchio alla calabrese, alla genovese ma mancava la vasca che era completamente stata rimossa, però avendo tutte le tracce sua a terra, sia le dimensioni della pietra, siamo riusciti a ricostruire fedelmente la vasca. Solo se ho elementi certi all’80-90% mi approccio alla ricostruzione, altrimenti lascio il rudere così come è stato trovato. In questo caso avevo tutti gli elementi: il mulo che girava perché a terra c’erano i pezzi di pietra sui quali si muoveva, e quello già mi restituiva la dimensione esterna della circonferenza cui girava l’animale e la traccia a terra della circonferenza della vasca per poi posizionare l’albero verticale e quello orizzontale».

«In provincia di Matera invece vediamo una struttura recuperata da una famiglia che produce olio, appartenente al bisnonno. Hanno così recuperato la vasca con le tre pietre, i torchi e poi una pressa idraulica».

«In Abruzzo, a Bucchianico, questi produttori di olio conservano un esempio straordinario di una pressa a leva del 1700, lunga 7,44 metri ed è diventato museo di sito perché questo sino ai primi decenni del Novecento ha prodotto olio».

«A Chiaramonte Gulfi, in Sicilia, vediamo un torchio a due viti di tipo calabrese, un torchio a una vite di tipo genovese e la vasca. In Sicilia utilizzano questo sistema per ancorare tutta l’imbragatura all’animale per farlo girare, mentre in Puglia si utilizzava solo una stanga in legno posizionata sulla parte retrostante del collo dell’animale».

«In provincia di Imperia, nella Liguria di Ponente, quello che vedete è un trappeto a trazione idraulica, con due vasche, due macelli per la molitura con una pietra e tutto quanto è idraulico e azionato e azionato poi con la ruota idraulica».

«Un’altra realtà a produzione idraulica è in Umbria, in provincia di Terni. La vasca di contenimento, si alzava la chiusa, l’acqua scendeva e alimentava le macchine all’interno della struttura».

«Tornando in Salento vediamo alcuni torchi di prima generazione, alcuni strettoi in ferro per poi passare a queste presse, sempre a trazione animale, con già l’introduzione del ferro».

Tornando ai Musei dell’olio, nati da progetto per essere musei, vediamo alcuni luoghi emblematici, come il museo Carli ad Imperia.

L’interno racconta la trazione animale e poi quella idraulica, dove è possibile osservare anche l’evoluzione tecnologica che c’è stata, dal torchio in legno agli strettoi e alle presse in ferro in due o tre colonne.

Anche la realtà di Bardolino merita di essere visitata, anche per comprendere come avveniva la molitura a trazione idraulica e la spremitura con i torchi.

Mentre a Cavaion Veronese il museo Turri racconta, tra le varie, la figura del Castaldo, estremamente importante all’interno di una azienda agricola.

A San Secondo Parmense hanno recuperato una serie di macchine, come un frantoio delle veraci e dietro le presse con un torchio ad una vite.

Anche a Trevi al Museo della Civiltà e dell’Olio viene tutt’oggi conservata una bellissima realtà, una struttura di torchi binati alla genovese.

Insomma, le realtà da visitare sono tante e distribuite per tutto il territorio, da Nord a Sud. L’Italia è ricca di storia e di cultura che merita di essere compresa e conosciuta in tutti i suoi aspetti.

Le tante testimonianze che raccontano l’Italia olearia sono bellissimi frammenti di un mondo prezioso che va trasmesso agli appassionati oleofili, ai consumatori, alle nuove generazioni.

L’intervento completo di Antonio Monte è possibile vederlo anche sul nostro canale YouTube, cliccando QUI.

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