Passo falso per la PAC. In Europa prevale la visione nostalgica del passato
Altro che sviluppo tecnologico, intelligenza artificiale, inclusione sociale, tutela dell’ambiente e mercati aperti e globali. L’impostazione della PAC per i prossimi sette anni resta sostanzialmente quella attuale. L’UE non è riuscita a elaborare una visione moderna e razionale della sostenibilità agricola all’altezza delle sfide globali che bisogna affrontare, specie adesso, con un’economia in ginocchio a causa degli effetti del Covid-19
Triste destino quello dell’agricoltura europea. Potrebbe essere il fiore all’occhiello dell’Unione Europea, il motore che guida la transizione ecologica della sua economia. Si trova ad essere, invece, il fanalino di coda, la palla al piede.
La responsabilità di questa situazione è prima di tutto della Commissione Europea. Prima di elaborare le politiche agricole, essa evita di consultare i diretti protagonisti e gli esperti del settore. E da qualche tempo affida la stesura dei documenti giuridici e delle comunicazioni a ecologisti che ignorano le problematiche agricole.
Nei giorni scorsi, i due co-legislatori, Parlamento Europeo e Consiglio (dei ministri agricoli, hanno approvato, in prima lettura, le rispettive posizioni sulla proposta di riforma della PAC. Proposta che la Commissione aveva formulato fin dal 2018. Negli ultimi mesi, tuttavia, è intervenuta la nuova tabella di marcia del Green Deal, entro cui sono state elaborate le due Strategie europee Farm to Fork e Biodiversity. E così i due co-legislatori hanno dovuto rileggere, alla luce di questi nuovi orientamenti, la proposta iniziale.
I due pacchetti approvati formeranno adesso la base per i negoziati interistituzionali, i cosiddetti triloghi, fra rappresentanti del Parlamento e del Consiglio, con la partecipazione della Commissione.
Sono stati quasi duemila gli emendamenti sottoposti al voto (con tutte le difficoltà legate agli scrutini digitali e disseminati lungo l’arco della plenaria) sui tre testi al vaglio degli europarlamentari: un numero che denuncia tutta la tensione attorno a dossier che hanno aperto crisi politiche anche all’interno dei gruppi d’Aula (defezioni importanti, ad esempio, fra i socialdemocratici tedeschi e i liberali ungheresi e slovacchi, che hanno votato contro la linea del partito e per il rigetto del pacchetto). Ma l’accordo molto stretto tra PPE, PSE e Renew Europe è valso a respingere gli emendamenti di Verdi e Sinistra e ad approvare una serie di emendamenti di compromesso. Questi però sono stati giudicati dal commissario europeo all’Agricoltura, il polacco Janusz Wojciechowski, “non esattamente in linea con lo spirito del Green Deal”.
L’impostazione della PAC per i prossimi sette anni resta, dunque, sostanzialmente quella attuale. L’UE non è riuscita a elaborare una visione moderna e razionale della sostenibilità agricola all’altezza delle sfide globali che bisogna affrontare, specie adesso, con un’economia in ginocchio a causa degli effetti del Covid-19.
Il rischio adesso è che, nel difficile negoziato sul bilancio pluriennale, questa politica potrebbe essere ulteriormente sacrificata a vantaggio di altre.È necessaria una visione organica dell’agricoltura, della produzione di cibo e del suo impatto sull’ambiente e sulla società. Su questo tutti a parole dicono di concordare. Manca, tuttavia, la consapevolezza che ogni strategia deve partire dall’individuazione di obiettivi basati su dati scientifici; e solo successivamente si devono ricercare le soluzioni e gli strumenti più idonei.
Non si possono tenere slegati i problemi da affrontare: tenuta demografica dei paesaggi rurali, specie quelli collinari e montani; competitività degli agricoltori; livello minimo di autosufficienza alimentare dell’UE; sicurezza alimentare; tutela dell’ambiente.
Ci sono due luoghi comuni davvero resilienti che durano ad essere scalfiti.
Il primo è che gli agricoltori europei dovrebbero produrre di meno rispetto al passato. Siccome i prodotti importati arrivano a prezzi più contenuti, non sarebbe conveniente spingere più di tanto sulla produttività agricola. Da questa idea sbagliata nasce la spinta a ottenere una maggiore sostenibilità ambientale mediante una riduzione dell’utilizzo di agrofarmaci. Ma si dimentica che negli ultimi trent’anni, ad esempio in Italia, la riduzione dei principi attivi è stata già del 40 per cento. Un contributo fattivo degli agricoltori nel migliorare la propria impronta ecologica che, però, ha reso più difficile la protezione dei raccolti: meno molecole a disposizione significa anche maggiore possibilità di insorgenza di resistenze nelle piante infestanti, gli insetti, i patogeni fungini. E l’altro strumento che si vorrebbe utilizzare è la crescita esponenziale dell’agricoltura biologica. Senza valutare i rischi di una simile scelta per l’ambiente, la biodiversità e la quota di autosufficienza dell’UE: una quota solo del 79% per la colza, che scende al 42% per il girasole, ed è solo del 5% per la soia.
L’altro luogo comune rimasto da decenni granitico è che la permanenza degli agricoltori nelle aree rurali si ottiene esclusivamente con lo strumento dei pagamenti diretti. Ma diversi studi hanno dimostrato che tale forma di intervento è del tutto inadeguata per raggiungere qualsivoglia obiettivo. È pressoché impossibile individuare indicatori e target che permettano di premiare i virtuosi e, peggio ancora, per sanzionare gli inadempienti. Inoltre, un pagamento ad ettaro non aiuta il profitto, tantomeno la sostenibilità.
Più sale la rendita, più il reddito si riduce, come sanno tutti gli affittuari che, come effetto indiretto dei pagamenti diretti, devono far fronte a canoni sopravvalutati.
La transizione ecologica dell’agricoltura europea – per fare in modo che il settore primario contribuisca al raggiungimento degli obiettivi del Green Deal – dovrebbe, invece, consistere in un impegno massiccio in ricerca e innovazione.
La parte più rilevante delle risorse finanziarie nella futura programmazione dovrebbe essere concentrata su programmi che permettano all’agricoltura di produrre di più con meno input. In particolare, la PAC e i programmi di ricerca dovrebbero puntare sulla intensificazione sostenibile delle produzioni, mediante l’utilizzo intelligente dei fitofarmaci (fino a quando non saranno a disposizione nuovi strumenti) e delle risorse genetiche.
Occorrerebbe, pertanto, investire sulle biotecnologie agrarie e l’agricoltura di precisione per fare in modo che i sistemi produttivi riducano i costi e diventino più competitivi. Si tratta di favorire la creazione di reti di imprese e non imprese che permettano agli agricoltori e a tutti i protagonisti delle aree rurali di beneficiare di tali investimenti. In che modo? Migliorando e rafforzando i flussi di conoscenza e i legami tra ricerca e sistemi produttivi.
Nello stesso tempo, sarebbe necessario favorire la transizione digitale in agricoltura, soprattutto nelle aree interne, come condizione di un loro rilancio. La parola d’ordine dovrebbe essere: congiungere inclusione sociale, tutela dell’ambiente e agricoltura 4.0, con il triplice obiettivo di aumentare la produttività agricola, conservare gli ecosistemi e salvaguardare la tenuta demografica dei paesaggi rurali (soprattutto puntando sull’agricoltura sociale).
Per l’agricoltore la sostenibilità non dovrebbe più essere un vincolo, ma un’opportunità per vivere meglio e competere nel mercato globale. Non dovrebbe prefigurare un ritorno nostalgico al passato, ma un modo virtuoso per connettere nelle campagne sviluppo tecnologico, intelligenza artificiale, mercati sempre più aperti e globali, con l’inclusione sociale e la tutela ambientale.
In apertura, foto di Francesco Caricato ©
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