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Dalla pandemia alla guerra in Ucraina: la risposta del settore oleario a nuove criticità

L’undicesima edizione di Olio Officina Festival ha ospitato un ricco dialogo che ha visto come protagonisti Paolo Rocchi, direttore commerciale di Oleificio Rocchi, il direttore generale di Assitol Andrea Carrassi e Dora Desantis, responsabile qualità Agridè. Il comparto degli oli vegetali sta rispondendo a una situazione complessa e delicata, dove nuove strategie e visioni commerciali risultano necessarie

Chiara Di Modugno

Dalla pandemia alla guerra in Ucraina: la risposta del settore oleario a nuove criticità

L’undicesima edizione di Olio Officina Festival si è tenuta a neanche un mese di distanza dall’invasione russa in Ucraina, dal 17 al 19 marzo.

La situazione in cui versavano i mercati mondiali, indipendentemente dal settore di produzione, da quel momento, è stata completamente stravolta.

Oggi, a distanza di sei mesi da quando quella mattina di febbraio abbiamo colto cosa stesse accadendo, lo scenario in parte si è ripristinato, se si pensa, ad esempio, al commercio relativo ad alcune materie prime.

Stiamo, però, ancora subendo le conseguenze di quanto accaduto, dove i prezzi elevati di prodotti alimentari e non ne sono una concreta dimostrazione.

Hanno dialogato attorno a questa delicata tematica, proprio in occasione di OOF Festival, Paolo Rocchi, direttore commerciale di Oleificio Rocchi, il direttore generale di Assitol Andrea Carrassi e Dora Desantis, responsabile qualità Agridè.

Carrassi ha posto subito il problema della possibile assenza dell’olio di girasole – un elemento chiave per molte produzioni industriali – affermando che «viene esportato per il 75% dall’Ucraina e dalla Russia, e in un momento in cui i porti sono stati minati, le aziende evacuate per tutelare il personale o addirittura bombardate, se anche la guerra cessasse oggi, servirebbero comunque molti mesi per ripristinare il flusso normale delle lavorazioni. Inoltre, bisognerà anche valutare gli impianti e le loro condizioni, così come i terminali dei porti, dal momento che il commercio con l’Ucraina e la Russia avviene principalmente via mare».

Come precedentemente accennato, l’olio di girasole è indispensabile per l’industria di trasformazione, che lo impiega nella conservazione dei sottoli, per la realizzazione di snack, pane industriale e altri prodotti di questa natura.

«Quindi quello che fisicamente è presente sul territorio europeo può essere lavorato e consegnato, per il resto è un’incognita. Stiamo assistendo a una situazione in continuo mutamento, e occorre, quindi, pensare di sostituire l’olio di girasole con altri oli grassi, come l’olio da olive raffinato, o sansa raffinato, ma pure in questo caso le quantità non sono molto elevate perché sappiamo che la produzione mondiale di olio da olive supera di poco i tre milioni di tonnellate l’anno. In Italia, ogni anno, consumiamo circa 600mila tonnellate del comparto olio da olive, e del comparto relativo all’olio di girasole 700mila. Raddoppiare il consumo di olio da olive è impensabile in una situazione in cui la produzione mondiale, come detto, è di tre milioni. L’industria alimentare sta guardando ad altri oli grassi, come l’olio di soia. Nonostante di quest’ultimo ne siamo i primi produttori europei, la resa è come quella dell’olio da olive, quindi un 16/17% sul totale: molto meno di quello che si ricava del girasole».

Oltre al problema della resa, sussiste quello degli impieghi e del sapore. Infatti «per diverse applicazioni non va bene, soprattutto nella frittura perché rilascia un sapore che potrebbe non essere gradito. Anche nell’industria dolciaria non trova terreno fertile se impiegato in tutte le preparazioni che prevedono creme che devono essere dense. Si sta di nuovo parlando di olio di palma, sostenibile, che eviti deforestazioni. A livello quantitativo è l’unica alternativa che c’è sul mercato. All’anno, sono settanta i milioni di tonnellate di olio di palma prodotti, e per l’industria di trasformazione è un’alternativa da prendere seriamente in considerazione».

Dora Desantis ha, invece, posto l’attenzione su un problema cruciale, ovvero l’indipendenza alimentare, affermando che «l’Italia, pur essendo un paese che basa molta della sua economia sulla produzione del settore agroalimentare, non è assolutamente autonoma e quindi ci sono altri Paesi che forniscono il necessario per soddisfare le esigenze interne. Ormai è assolutamente necessario guardare al futuro cercando di comprendere come l’Italia può porsi di fronte a delle produzioni nuove facendosi supportare dalla tecnologia. Una tecnologia che deve andare verso la sostenibilità, ma non intesa come qualcosa di restrittivo, come si intende il biologico. Che deve essere supportato dalla nostra conoscenza in campo per poter riportare in Italia grandi produzioni che adesso non esistono più. L’Italia non ha tantissimo terreno a disposizione per poter piantare di nuovo tanti ulivi, tanto mais o girasole, per cui è necessario ottimizzare queste produzioni, aumentando sia la disponibilità di oli da olive, sia di altri grandi prodotti e in particolare altri oli vegetali. Non sono necessari solo per essere consumati a crudo, ma per tutta l’industria alimentare che in Italia è presente».

Le aziende si sono trovate a dover fronteggiare i danni della guerra a seguito di un momento estremamente difficile, dove le problematiche si sono susseguite a catena, dal costo delle materie prime in aumento agli elevati prezzi del carburante.

In una situazione così complessa, le aziende devono cercare di rispondere.

Paolo Rocchi ha raccontato di come, durante la prima ondata di Covid, si siano trovati davanti a un contesto caratterizzato da una serie di criticità.

«È stata una cosa estremamente nuova – afferma Rocchi – dove i problemi non risiedevano solo nell’approvvigionamento delle materie prime, ma anche degli imballi primari e di quelli secondari. L’azienda ha dovuto reagire e creare un’unità di crisi ad hoc. Purtroppo, pensavamo che quella fosse un’unica esperienza, e invece alla fine di febbraio di questo anno ci siamo trovati a dover riattivare una unità di crisi dedicata a una emergenza che era ancora più sconosciuta della precedente. Un susseguirsi di eventi ha messo in crisi tutta la catena di approvvigionamento per cui abbiamo dovuto lavorare molto sul cercare di garantire a tutti, con ogni mezzo possibile, la disponibilità del prodotto sullo scaffale. Ciò che si teme in questo momento è il dubbio di quello che saranno i prossimi mesi, dal momento che è una situazione molto difficile da ripristinare».

Carrassi ha poi affrontato la questione del settore oleario sotto una visione più ampia, analizzando una serie di dinamiche che esulano dalla guerra in Ucraina.

«Noi come associazione non parliamo di prezzi, – afferma – ma facciamo una battaglia contro il sottocosto. Ci sono alcuni prodotti in cui il sottocosto viene tollerato, come nel caso dei vecchi modelli di telefono, ma nel caso dell’extra vergine questo è un’offesa al prodotto e a tutta la filiera olivicolo-olearia, imprenditori, lavoratori e lavoratrici. Questo contesto porta gli attori a essere stipendiati sempre meno, ed è un fenomeno che deve essere contrastato. Non dipende dal settore industriale, ormai anche l’opinione pubblica l’ha capito, ma è una politica commerciale della grande distribuzione che utilizza l’extra vergine come prodotto civetta insieme ad altri. In merito alla direttiva europea sulle pratiche sleali, avevamo chiesto alla politica di inserire il divieto del sottocosto sull’extra vergine ma le discussioni non erano ancora mature e c’è stata una contro spinta perché passasse questo divieto, infine concretizzatosi solo con i prodotti freschi deperibili. Questa è una battaglia che va portata avanti perché ne va dell’immagine dell’olio e di tutta la filiera».

In merito alle commodities internazionali, ai flussi di mercato e alle relazioni tra Paesi, i cambiamenti stavano avvenendo già pre-pandemia.

«Gli scombussolamenti di questa natura portano a delle rivoluzioni in ogni settore. Su una bottiglia di olio di semi il margine è di qualche centesimo di euro; quindi, queste fluttuazioni imprevedibili rischiano di arrecare danni ai settori agroalimentari e ai prodotti, perché poi chiaramente bisogna scaricare a valle queste fluttuazioni, questi maggiori costi che in un’ultima analisi finiscono sul consumatore; bisogna quindi riflettere su misure eccezionali e straordinarie da applicare a questo periodo storico».

Carrassi conclude facendo il punto sul consumo di extra vergine nel periodo pandemico, dichiarando che «noi come azienda del settore alimentare abbiamo sempre lavorato: la nostra mission è fare prodotti alimentari. Dovevamo sfamare gli italiani e gli europei perché le statistiche delle esportazioni dell’olio parlano chiaro e indicano che il consumatore continua a comprarlo. Chiaramente si è ridotto rispetto al 2020, dove c’è stato un boom del consumo di olio extra vergine. Anche negli Usa è aumentato il consumo di extra vergine in quel periodo, dove i ristoranti erano chiusi e questo è un chiaro segno di come i ristoranti abbiano ancora molto lavoro da fare per quanto concerne l’olio. Bisogna entrare nell’ottica che i prezzi aumenteranno e le catene di distribuzione, che anche in questo periodo mantengono i prezzi bassi, sono fuorvianti perché danno al consumatore un messaggio che non è quello reale, perché, purtroppo, c’è una crisi mondiale delle quotazioni che si riflette in ogni comparto».

Sicuramente gli attori del settore oleario hanno subìto dei danni per via di decisioni esterne, ma bisogna anche riconoscere che per risollevare il comparto occorre lavorare anche dall’interno.

Serve adottare nuove strategie, che guardino al prodotto extra vergine sotto una nuova luce.

Paolo Rocchi vive due realtà commerciali differenti.

Infatti, oltre ad essere impegnato nel settore oleario, vive anche la realtà del caffè, e afferma che «nel mondo dell’olio ci troviamo all’interno di una complessità di norme, di contro il settore del caffè è regolamentato ma la libera imprenditorialità ha il suo sfogo, ha la possibilità di comunicare quelle che sono esperienze sensoriali, cosa molto difficile nel mondo dell’olio».

L’azienda, comunque, ha deciso di investire nell’innovazione, nonostante i possibili limiti.

«Con l’ingresso della quinta generazione, l’azienda si è orientata molto più su una comunicazione social, affrontando anche altre tematiche di vendita. Infatti, per diffondere conoscenze circa l’impiego dell’olio, usiamo molto i canali di questo tipo. Offriamo anche video tutorial di come utilizzare i vari prodotti perché abbiamo provveduto anche a una segmentazione dell’offerta commerciale, cosa che prima non c’era».

Ma Rocchi ha spiegato che la rivoluzione ha previsto anche un restyling della bottiglia, comunicando ai consumatori il perché di queste scelte.

Inoltre, una novità in merito ai formati delle bottiglie è arrivata con la pandemia, quando sono state vietate le oliere.

Così l’azienda propose la monodose da 10 ml, sia di extra vergine, sia di aceto, attraverso la distribuzione tramite le torrefazioni, e per quel prodotto abbiamo visto che è il miglior veicolo di diffusione.

Questo perché un agente è una figura che il proprietario di un locale vede circa cinquanta volte l’anno, facendo sì che si crei un legame di fiducia.

In via conclusiva di questo stimolante e ricco dialogo, Dora Desantis ha parlato dell’importanza di continuare a comunicare in maniera positiva l’olio, come è stato fatto con la realizzazione del calendario per l’anno 2022, ricco di immagini, testi e colori per raccontare un prodotto così importante per la nostra salute.

«Il settore ne ha bisogno, e il nostro impegno è quello di mettere sempre al centro la nostra vocazione produttiva. La nostra azienda si trova nella culla della produzione della terra di Bari, e nonostante abbiamo a disposizione due cultivar molto importanti, la Coratina e la Ogliarola Barese, serve comunque perfezionare alcuni aspetti comunicativi per poter trasmettere un messaggio legato alle qualità intrinseche di questo prodotto. Dobbiamo fare in modo che queste due cultivar non spaventino il consumatore medio, un consumatore che non è abituato a oli molto fruttati amari e piccanti, qualità per noi positive. Succede che molti consumatori chiamino per dire di aver trovato un olio amaro, considerandolo un difetto. Quella situazione si trasforma in una opportunità per far spiegare le caratteristiche di quell’olio, e del fatto che quel sapore è normale e non sinonimo di scarsa qualità. Solo spiegando, divulgando le nostre conoscenze, possiamo trasferire la cultura di questo prodotto».

In apertura, foto di Olio Officina©

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