Saperi

Non si nasce solo una volta

Narrazioni. “Allora ci vuole dire che lei è rinata?”. “Sì, a cinquant’anni. E anche voi potrete rinascere altre volte. Più volte di quanto non sia successo a me. Perché eccetto quando si nasce la prima volta biologicamente – e non è una nostra scelta – tutte le altre volte dipende da noi. Esclusivamente da noi. Ricordatevelo”

Mariapia Frigerio

Non si nasce solo una volta

PIŞMANIYE

Roma… hotel St. Andrews… Sófia… Stara Planina… Sopot… Edirne… Kilitbahir… Dardanelli… Çanakkale… Çanakkale… Çanakkale… Hubeyb… Troia… Hubeyb… Hubeyb… Hubeyb…

Aveva la testa confusa quando si alzò quel sabato mattina. Due sere prima aveva trovato il messaggio di Michele nella segreteria. Lo aveva richiamato. Lui sarebbe arrivato da lei oggi, per pranzo. Era contenta. Molto contenta. Michele che la veniva a trovare…
Contenta… Era più che contenta… era emozionatissima.
Poi di nuovo il sogno che le aveva fatto compagnia la notte riaffiorava con prepotenza. Tutti quei luoghi… Li rivide nella mente, quasi al ralenti: Roma, il St. Andrews, Sófia, la Stara Planina, Sopot, Edirne, Kilitbahir, i Dardanelli, Çanakkale, Troia.
E lui: Hubeyb.
Hubeyb…

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Era stato Piero a portarglielo in classe. «Mi scu-scusi, pro-pro-fe-fessoressa, c’è qu-qu-questo nuovo a-a-allievo», le aveva detto balbettando. I ragazzi avevano riso. Malvina aveva alzato gli occhi dal registro e si era trovata davanti un ragazzo altissimo. Doveva essere sui vent’anni. Lei insegnava in una prima. I suoi allievi – ripetenti compresi – non andavano oltre i diciassette.
Il giorno precedente c’era stata la riunione straordinaria della Commissione Stranieri. La coordinatrice, in preda a furori umanitari, aveva detto: «Non possiamo abbandonarlo anche noi». E aveva messo al corrente i colleghi del caso: un giovane turco lasciato da una nave al porto con la testa sfracellata. All’ospedale aveva subito due interventi. Non poteva, quindi, rientrare a casa né, del resto, la famiglia, per motivi economici, era in grado di venirlo a riprendere. Le uniche visite che aveva ricevuto erano state quelle di un giornalista del suo Paese che risiedeva a Milano.
«Visto che ora, in attesa di essere in grado di affrontare un viaggio in aereo per Istanbul e poi, col pullman, di raggiungere Çanakkale, sta alla “Casa dei ragazzi” e la direttrice, insieme con don Dionigi, mi ha chiesto di farlo frequentare il nostro istituto per il tempo che si fermerà in Italia, chiedo a voi, colleghi, un parere o, meglio, la vostra approvazione».
Ma quant’era buona la coordinatrice, aveva pensato Malvina. Poi, come sempre la mente le era partita, mentre ascoltava poco… (poco? per niente partecipe) le dotte disquisizioni dei colleghi. Era stanca di frasi fatte, di relazioni sul nulla. Non aveva potuto, tuttavia, non registrare alcune affermazioni. Sempre le solite: “integrazione”, “socializzazione”, “educazione permanente”. No, non sopportava proprio quella terminologia. Eppure anche lei, almeno per iscritto, era costretta a farne uso, non fosse altro per non suscitare più o meno velati rimproveri dalla presidenza, pardon, dalla dirigenza scolastica.
E ora eccolo il ragazzo, lì davanti a lei. «Caspita» aveva pensato «ma perché non sto mai attenta? Cosa dovrò fare? Cosa hanno… cosa abbiamo deciso ieri?». Si era fatta coraggio e si era preparata a improvvisare, come sempre. «Grazie, Piero» aveva detto al bidello. E, sorridente, rivolgendosi al nuovo venuto: «Tu sei Hubeyb Kazum, vero?». Il ragazzo le aveva fatto un cenno affermativo col capo.
Un altro alunno straniero, aveva pensato, che andava ad aggiungersi alla marocchina Yousra, all’albanese Angjelin, al peruviano Mario Amargura Mendez, al rumeno Stefan, alla bosniaca Katarina, alla rumena Alexandra, alla filippina Nicole, alla brasiliana Debora Azevedo Fonseca e alla bellissima ghanese Lisette. Comunque non era un problema: Malvina amava i ragazzi, soprattutto quelli in condizioni disagiate.
«Ti puoi sedere… », ma non aveva fatto in tempo a finire la frase che l’esuberante Yousra, la marocchina, non si era trattenuta dal dire: «Qui, qui, vicino a me!».
«Già, per farti scopare anche da lui» aveva borbottato il peruviano Mario Amargura Mendez.
«Senti, Amargura… ».
«Senta lei, prof, come glielo devo dire di non chiamarmi Amargura, ma Mendez?».
«Allora, Mario Mendez, vuoi farti conoscere subito? Chiedi immediatamente scusa a Yousra». Ma la marocchina si era prontamente alzata e avventata sul peruviano, mentre urlava: «Io ti ammazzo. Io non voglio scuse». Stefan, il rumeno, sghignazzava per la battuta di Mario e anche Angjelin, l’albanese – sempre così educato – rideva. Ma la bosniaca, la filippina, la rumena e la brasiliana si dissero fra loro, a voce bassa, ma non tanto da non essere comprensibile, che era il solito stronzo. Anche la bellissima ghanese, Lisette, pur tacendo, disapprovava. La classe si divise in due. I ragazzi, compresi gli italiani, erano d’accordo con Mario Amargura Mendez e pure alcune delle ragazze italiane. A sostenere l’esuberante Yousra restavano solo le straniere e le italiane più timide. Tre o quattro. Non di più.
Malvina sapeva che solo toccando Yousra ne avrebbe placato la comprensibile ira. Poi c’era da sistemare il nuovo venuto che guardava esterrefatto. Infine avrebbe dovuto parlare a quell’insolente di Mario Mendez.
Così, lasciata la cattedra, aveva preso per le spalle Yousra: «Vieni con me, ti prego». Ma Yousra non ne voleva sapere: «Che ci vengo a fare, tanto a quella testa di cazzo nessuno fa mai niente… ».
«Ma se te lo chiedo come un favore personale? Ti prego, Yousra. Poi penso a Mario».
«Vedi, prof, non è che io non voglio, ma… ». Malvina l’aveva costretta a sedersi alla cattedra accanto a lei.

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Nei giorni successivi tutto tornò tranquillo. Malvina aveva parlato con Mario Amargura Mendez. Storia difficile anche la sua. Un padre che lo aveva rifiutato così come ora lui ne rifiutava il cognome.
La presenza del turco fu comunque una presenza rasserenante. Non capiva quasi la loro lingua, ma con un po’ d’inglese e a gesti comunicava con tutti. Anche con Malvina. E ogni mattina, per quasi tre mesi, venne a scuola accompagnato dall’albanese Angjelin. Entrambi, infatti, stavano da Don Dionigi.
Malvina si era presa l’impegno (con se stessa, non certo con la Commissione Stranieri) di seguirlo. E ogni pomeriggio saliva fino alla “Casa dei ragazzi” per stare con lui e cercare di insegnargli qualcosa. Impresa non da poco. Malvina non conosceva il turco. Hubeyb pochissime parole d’inglese, che usava per lo più in modo improprio. Ma il fatto che quell’insegnante se lo fosse preso a cuore lo aiutò molto. Un giorno gli portò della musica con auricolare. Vivaldi. Capì immediatamente di avere sbagliato. Lui le parlò di Michael Jackson. Il giorno seguente lo ebbe. Gli regalò poi una carta della Turchia e lo vide felice. Le fece vedere i luoghi dove aveva studiato e quelli dove aveva lavorato. Poi Çanakkale dove viveva la sua famiglia.
Un’altra idea era stata quella di cercargli quotidiani turchi. Ricerca vana per diversi giorni. Finalmente li aveva trovati da un edicolante un po’ pazzo, ma simpatico, che stava in periferia, verso l’autostrada e che ogni volta che la vedeva arrivare l’accoglieva con un: «Ecco la turca!». Succedeva che riconoscendola anche a distanza lui si sbracciasse per salutarla. «Ma come fa a capire che sono io?» gli aveva chiesto incuriosita Malvina.
«Dalla mezzaluna! Ovvio!» e da solo rideva della sua battuta.
I quotidiani li avvicinarono ancora di più e succedeva che spesso Malvina si prendesse delle incombenze che sarebbero spettate ad altri. Così lo accompagnava nella camera che divideva con Angjelin e dopo averlo fatto sdraiare sul letto, gli toglieva scarpe e calze per lavargli quei suoi piedi lunghissimi (45 almeno) in un catino che aveva avuto l’accortezza di portare. Poi continuava col taglio delle unghie e infine metteva in uno zaino la sua biancheria sporca e se la portava a casa per lavarla.
In questi casi cercava di spiegargli: «Mi porto la tua roba a casa, la lavo, la stiro e nel giro di due giorni te la riporto».
«No problem» era, immancabile, la risposta del ragazzo

A volte, nelle sue visite, facevano delle brevi passeggiate. E non appena lo vedeva stanco si sedevano su una panchina. Si divertivano, allora, a guardare e a riconoscere i vari tipi di auto. Lui era bravissimo. Era un loro gioco e per questo, quando il giorno della sua partenza si stava ormai avvicinando, Malvina gli donò un modellino di Panda verdina (nera come la sua non ne aveva trovate), da aggiungere ai piccoli regali precedenti: una nave di legno in ricordo del suo ultimo lavoro, una penna blu con cui cercava di fargli riacquisire manualità e una t-shirt della squadra della città.
A scuola era ormai noto a tutti l’interesse di Malvina per Hubeyb. Così la coordinatrice della Commissione Stranieri decise di affidare a lei il compito di organizzargli la partenza.
Malvina telefonò a Milano al giornalista turco che subito si impegnò a trovare una persona che potesse accompagnare il ragazzo a Roma. Informò poi Malvina che il 14 sarebbe arrivato Ardi Bardusci, albanese, studente ventenne di biologia a Milano. Ardi aveva suppergiù l’età di Hubeyb, parlava benissimo sia l’italiano sia il turco, per cui aveva accettato volentieri l’incarico di accompagnarlo da un altro collega che li avrebbe ospitati a Roma la notte prima della partenza.
I fatti si susseguirono, da quel momento, press’a poco così.
14 aprile: alle 13 Hubeyb, in compagnia di Ardi, lascia “La casa dei ragazzi” alla volta dell’ambasciata per volare, poi, il 15 in Turchia. Malvina riceve alle 20 la telefonata disperata dello studente albanese: «Non troviamo nessuno che ci dia la medicina».
Finalmente si risolve telefonicamente la cosa: la medicina (il barbiturico antiepilettico) gli viene prescritta al Pronto Soccorso di Roma dove i due ragazzi, cartelle cliniche alla mano, fanno l’una di notte. Nel frattempo le telefona il giornalista della TV turca che li ospita perché la vuole ringraziare personalmente.
15 aprile, 10.30: Malvina chiama al cellulare lo studente albanese per sapere come vanno le cose e per salutare Hubeyb. Tutto bene. Stanno andando, in taxi, a Fiumicino. Ore 12: sms di Ardi. Hubeyb non è stato imbarcato perchè manca un certificato medico che attesti che può volare solo. «Siamo disperati: fai qualcosa».
Telefonata in ospedale al suo amico medico; le dicono che Arturo Baldi è in sala operatoria a tempo indeterminato. Gli fa avere un messaggio.
16 aprile: Hubeyb è ancora a Roma in attesa del cambio di biglietto senza maggiorazioni di spese. Malvina ha il suo giorno libero da scuola e va in ospedale da Baldi che le consegna il certificato e la prega di parlare col giornalista perchè trovino subito un neurochirurgo che lo segua all’arrivo in Turchia. Lei continua, intanto, ad avere telefonate ed sms affettuosissimi dai tre (Hubeyb, il giornalista turco che li ospita a Roma e l’albanese). Ma il giornalista turco deve partire per la Francia per un servizio, Ardi ha un esame a Milano e Hubeyb non può essere lasciato solo. Malvina passa da scuola e decide di prendere, per l’indomani, un giorno di ferie per raggiungerlo a Roma. Il preside glielo concede. Prenota, prima di partire, l’hotel St. Andrews, uno di quei brutti alberghi nelle vicinanze di Termini, dove era stata in gita scolastica qualche anno prima. Chiede due singole. Tutto a posto. Chiama Ardi perché le porti Hubeyb, al suo arrivo, alla stazione.

Dal diario di Malvina:
«16 aprile, ore 13. Ho sbrigato tutte le mie cose. Come sempre ho trovato dei colleghi disponibili a sostituirmi domani. Ora sono a Viareggio. Il treno è partito da poco. Dovrei arrivare a Roma verso le 17. Alle 17 e15 parte l’Eurostar di Ardi per Milano. Devo arrivare assolutamente in orario: non può perdere il suo esame.
«Ore 14.30. Alla mia età ancora a scrivere un diario… Mi chiedo perché. Forse per essere una in più a descrivere la bellezza della Maremma che vedo ora dal finestrino? È ridicolo, lo so, ma da quando mio marito e mio figlio mi hanno lasciata porto sempre con me questo quaderno di appunti della Moleskine. Le mie prime parole furono, infatti, per le loro francesi. Sì, proprio per Simone e Marthe. Entrambe ventitreenni. Simone dell’età di mio figlio Pier Paolo. Anche Marthe dell’età di Pier Paolo. Peccato che si fosse messa con Antonio ovvero con l’uomo che, a quel tempo, era mio marito.
«Ho deciso che non mi arrabbierò più quando le mie allieve, durante le mie lezioni che io credo appassionanti, ma che per loro non lo sono per nulla, metteranno mano a quei loro diari gonfi di foto e di scritte coloratissime. Le lascerò fare. Anche a loro, prima o poi, capiterà una qualsiasi Simone o una qualsiasi Marthe che gli porterà via figlio e marito. È il destino di noi donne, del resto. E allora che scrivano in santa pace tutte le loro scemenze. Io non le disturberò più.
«Guardo fuori dal finestrino. Mi ero ripromessa di finire “Suite francese”. Sono a metà. Nel tempo del viaggio forse ci sarei riuscita. La Némirovsky è bravissima. Ma sono sempre la solita: qualunque cosa mi distrae. Anche il pensiero più banale è sufficiente a farmi partire la mente. Proprio come alla riunione della Commissione Stranieri. Mi chiedo perché mi ostini ancora a farne parte… ».

Quando scende dal treno trova i due ragazzi lì al binario ad aspettarla. Ardi le stringe la mano, poi l’abbraccia dicendole: «Grazie. Se non fosse stato per lei…». Malvina ha timore che lo studente perda il treno. Lo invita a lasciarli. Si salutano. Lei resta con Hubeyb. Camminano alla volta del St. Andrews. Malvina si ricorda che ci sono più di dieci minuti a piedi. Troppi per il ragazzo con tutto quello che ha già passato. Chiama un taxi. Al loro arrivo trovano l’ingresso dell’albergo pieno di studenti che urlano. La solita gita scolastica. Forse più di una. Hubeyb, nonostante la sua esperienza italiana nella rumorosa classe di Malvina, li guarda allibito. Malvina lo fa sedere su una panca mentre entra nella piccola reception. Chiede le camere prenotate e consegna i documenti. Il filippino dietro il banco le dà una sola chiave dicendole: «Camera 103».
«Ci deve essere un errore. Ho prenotato due singole, ieri».
L’uomo controlla prima su un registro, poi al computer. Niente da fare. La prenotazione è per una matrimoniale.
«Mi dia ugualmente un’altra camera» dice agitata Malvina.
«Ad aprile? Con l’albergo pieno di gite! E dove gliela trovo un’altra camera?».
«Ma ieri al telefono la signora con cui ho parlato mi ha detto che era tutto a posto. Che c’erano due singole. Non ha voluto nemmeno il numero della mia carta di credito. Ha detto che le bastava il nome della scuola.»
«Sarà stata l’egiziana… speciale per fare casini, quella!».
«Mi faccia parlare con lei.»
«Non sarà qui fino alle 7 di domani mattina. Al suo turno.»
«Provi a telefonarle…».
«Già! E chi lo sa dove va quando non lavora qui… Allora la prende o no la stanza?».
Malvina si sente persa. Fra una cosa e l’altra si sono fatte le 18.30. Che altro può fare a quell’ora con un ragazzo che mal si regge sulle gambe?
«Certo che la prendo».
Il filippino le indica una porta che dall’androne va all’ascensore: «La camera è al primo piano».
Torna da Hubeyb che nel frattempo si è appisolato. Lo sveglia. Prende la sua piccola borsa e quella più grande del ragazzo. Un suo dono anche quello. Poi si avviano alla camera.
Malvina ha voglia di piangere quando vede, in quella camera così piccola, lo squallido grande letto davanti a sé. C’è una seggiola di fronte a un tavolino. «Dormirò lì» pensa.
Intanto, mentre lei sistema il poco che va sistemato, fa sdraiare il ragazzo sul letto. Hubeyb si addormenta di nuovo.
Malvina va in bagno più tranquilla. Si guarda allo specchio. È stanca. Ma pensa che bisogna portarlo a mangiare qualcosa.
Si ricorda della pizzeria Capri convenzionata con l’albergo dove, pochi anni prima, cenava con i suoi allievi. Così, dopo una mezz’ora, lo chiama e pian piano si avviano a piedi.
Lei fa di tutto per parlargli. Vuole spiegargli l’errore della camera.
«No problem» risponde Hubeyb. Come sempre.
No problem è per tutto: per dire no, per dire che non capisce, per dire che va bene. A volte, quando si scorda di thanks, anche per dire grazie. Mai nell’unico senso giusto. Per dire che non ci sono problemi. Invece di problemi ce ne sono eccome. Almeno per Malvina.
A tavola ordinano una pizza. Hubeyb cerca di mangiare in modo civile, ma si vede che non è abituato. Tende a riempirsi la bocca con grossi bocconi. Malvina gli taglia la pizza a fettine.
«No problem» è – ovviamente – ciò che dice il ragazzo. Malvina non sa come intrattenerlo. Tutto il suo entusiasmo ha lasciato il posto a una sorta di inquietudine. L’unica cosa che vorrebbe fare, e non può, è dormire. Si sono fatte le 20.30. La mattina dovranno svegliarsi alle 6 per essere a Fiumicino alle 8.30. Il volo parte alle 9.30. Guai se il ragazzo lo dovesse perdere nuovamente. Guai per lui, ma anche per lei.
Tornati in albergo, salgono in camera. Malvina si sente sempre più imbarazzata. Decide di affrontare la situazione con decisione. Dopo tutto Hubeyb è un ragazzo più giovane di suo figlio e per tre mesi è stato anche suo allievo. Deve tirar fuori un po’ di autorità. Autorità… ma quando mai ne ha avuta? Comunque si sforza.
«Ti ho messo il pigiama sulla seggiola e lo spazzolino in bagno. Preparati, mentre scendo a chiedere la sveglia al portiere. Quando torno ti piego i vestiti. Tu mettiti a letto e dormi.»
«No problem, miss Malvina. Thanks.»
Il miss Malvina, con cui da sempre la chiama, le ricorda Rossella O’Hara e, per un momento, la fa sorridere. La sveglia… Già, una scusa per prendere un po’ di tempo e andare a fumare una sigaretta fuori dal portone dell’albergo.
L’aria è quella di un’incipiente primavera romana. Se non fosse per tutta la faccenda che le è piovuta addosso (o che forse si è tirata addosso) ora sarebbe proprio un momento di grande tranquillità.
Fuma e pensa. Fuma e osserva. Poco discosto da lei due ragazzi (studenti?) si stanno baciando. La sua presenza non crea loro alcun imbarazzo. “Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout […] Mais les enfants qui s’aiment/Ne sont là pour personne […]”. Naturale, quasi ovvio, il ricordo di Prévert. Malvina si ferma ancora, lì fuori, dopo aver spento la sigaretta. Li guarda. Un po’ li invidia. Gli anni di solitudine affettiva iniziano a pesarle. Vorrebbe anche lei, ora, qualcuno che la baciasse. Lo vorrebbe in questa primavera e lo vorrebbe per aiutarla a venire fuori da quello che l’aspetta, tra poco, su nella camera 103.
Smette coi pensieri e sale. Sono le 21.30. Ancora poco più di otto ore e poi tutto sarà finito quando, alle 6, inizieranno i preparativi per la partenza. Questo pensiero la conforta.
Nella camera, Hubeyb, sotto le lenzuola, sta già dormendo. Le tapparelle sono alzate. Malvina non vuole fare rumore ad abbassarle e pensa che la luce del mattino sarà utile per svegliare entrambi. Poi si chiude in bagno per infilarsi la camicia da notte. Dormire vestita non le va proprio e per il giorno successivo non ha nessun cambio.
Stanchissima si siede sulla sedia con il suo scialle indiano sulle spalle, scrive qualche riga di diario, incrocia le braccia sul tavolo e si addormenta.
Sono le 2, quando infreddolita, con un male al collo tremendo, si sveglia. È intontita. Non ricorda più dove si trova. Se ne ricorda, poi, all’improvviso. Guarda Hubeyb che dorme un sonno profondissimo. «Col suo barbiturico sarà difficile che si svegli» pensa.
A quel punto non resiste. Il richiamo di un letto dove stare sdraiata è troppo forte. E s’infila anche lei sotto le lenzuola.

Non sa neppure lei come sia successo. Non riesce a ricordare i particolari. Ma sa che ha fatto l’amore con Hubeyb. Sa che se lo è trovato addosso e che non l’ha respinto. Risente ancora la sensazione di lui che dopo, con le sue enormi mani, le ha carezzato la pancia. Rivede il suo imbarazzo. Ricorda di averglielo detto.
«Pancia de mama» si è sentita sussurrare come risposta.
Poi non ricorda più niente.

Dal diario di Malvina:
«Ore 22.00. Il treno (miracolo!) non ha avuto ritardi. Quando sono scesa c’erano i due ragazzi ad attendermi. Ardi mi ha ancora ringraziata, poi, velocemente è corso al suo binario. Sono rimasta sola con Hubeyb. Lui non fa che sorridermi. Ma parlargli è un’impresa. In ogni caso mi sono trovata in grande imbarazzo quando, dopo avere raggiunto il St. Andrews con un taxi (ma chi mi ridarà tutti i soldi che sto spendendo?), ho scoperto che non c’erano le due camere che avevo prenotato da scuola, ma… una matrimoniale! Che fare? Ho dovuto dire di sì a quell’antipatico di portiere filippino che non ha capito per nulla il mio stato d’animo. La camera è squallida. Un letto enorme sovrasta tutto. Forse neanche tanto enorme… è la camera piccolissima che altera le giuste proporzioni. Ora il ragazzo dorme. Pagherei non so cosa per avere un letto anch’io… invece mi aspetta una notte su questa seggiola…
«Ore 5.00. È assurdo. Decisamente assurdo… Alle 2, quando mi sono svegliata, non ho proprio resistito e, dopo essermi assicurata che Hubeyb dormisse (credo che i barbiturici che prende gli facciano anche da sonnifero), mi sono infilata nella parte libera del matrimoniale e mi sono addormentata di colpo. …Veramente non so dire come sia successo… proprio non lo so, ma a un tratto ho sentito il corpo di Hubeyb sul mio. No, non sono la Marchesa von O… non sono stata presa nel sonno, anzi, quando ho sentito il suo calore su di me… me lo sono stretto addosso, quel ragazzo altissimo, con tutta la forza delle mie braccia. Poi non ricordo altro… o forse sì… la sua mano grande (quante volte gli avevo tagliato le unghie, su, alla “Casa dei ragazzi”) carezzarmi la pancia. Un gesto molto dolce, ma io ne ho provato vergogna e gli ho fatto notare che era una pancia molle, la mia. Nel buio è riuscito a dirmi: “Pancia de mama”. Per una volta non ha usato quel suo “No problem”.
«Ora dorme. Tranquillo. E io come sono? Non so se sono stanca… So che sono una donna scissa… sì, divisa in due. Mi vergogno profondamente per quello che è avvenuto. La Marchesa von O, se non le avessero dato da bere, non avrebbe permesso che il conte abusasse di lei… il conte che, tutto sommato, era suo coetaneo! Mentre io non solo ho fatto l’amore, ma l’ho fatto con un ragazzo che potrebbe essere mio figlio, l’ho fatto senza oppormi. Poi penso agli altri… e mi chiedo cosa direbbero mio figlio, i miei allievi, i miei colleghi. Questi mi sembra addirittura di sentirli: “La spenta Malvina, la scipita Malvina, la innocua Malvina, la remissiva Malvina, la quasi cinquantenne Malvina che va con un ventenne… ”.
«Ma questi sono i pensieri di una parte di me. Sono i pensieri della Malvina di sempre. Poi ci sono i pensieri… le sensazioni di una Malvina diversa. Forse nuova. E sono sensazioni di calore e di dolcezza. Sono sensazioni di un benessere dimenticato o, forse, mai provato.
«Mi piace guardarlo dormire. E, come nel mito, mi sento sposa e madre. Quello che è successo poteva non succedere, ma so di essere felice che sia accaduto. Ogni mio turbamento si è placato e io mi sento veramente tranquilla. No, non tornerò, però, a letto. Tra non molto saranno le 6 ed è meglio che io sia già in piedi…
«O, forse, non tornerò nel letto solo per paura di essere io, questa volta, a cercare le sue braccia?».

Malvina svegliò Hubeyb alle 6 in punto, come stabilito. Quello che era accaduto nella notte sembrava non aver lasciato in loro – apparentemente -alcuna traccia. Non appena le valigie furono pronte scesero giù per la prima colazione, nella stessa sala dove Malvina aveva, in passato, fatto colazione con i suoi allievi.
I ruoli, nel ripetersi dei gesti abituali, si erano miracolosamente ristabiliti. Malvina aiutò il ragazzo, gli tagliò il pane, glielo imburrò, ci aggiunse anche un po’ di marmellata, gli versò caffè e latte. «No problem (grazie?)» era quanto lui seppe dirle per ogni gesto gentile.
Alle 7.30 l’egiziana chiamò il taxi. Poi si scusò con Malvina per l’errore delle camere. A Malvina venne da risponderle: «No problem». Si trattenne e le fu, invece, mentalmente grata.

**** **** **** *****

Il gabinetto dell’aeroporto – peraltro piuttosto pulito – sapeva di umano. Un odore che le riportò subito l’odore del ragazzo appena partito. C’era stato, tra loro, solo un saluto frettoloso, perché il tempo era stato impegnato nelle molteplici raccomandazioni. Malvina aveva, infatti, ripreso appieno il suo ruolo.
Non qui, però. Qui, mentre si sciacquava le mani, con questo odore di umanità che nessun deodorante riusciva a soffocare, si ricordò un pensiero che ultimamente accompagnava le sue notti solitarie.
Il pensiero di vendersi. Ecco, ultimamente aveva pensato più volte di farlo, per un contatto fisico, per sentirsi toccare, per sentirsi viva. No, non il sesso fine a se stesso le interessava, ma un contatto. Del resto, quattro (o più) anni di solitudine carnale possono far perdere la testa. E lei l’aveva persa ogni volta che qualcuno l’aveva toccata. E tutti, indistintamente, li aveva amati. Aveva amato gli infermieri che, via via, le prelevavano il sangue. Cercavano con le dita la vena. Per lo più introvabile. Dovevano, allora, sfiorarla o premere più forte l’avambraccio e, solo dopo lunghe operazioni, riuscivano a infilare l’ago. Poi le persone che nella ressa di certe festività milanesi la spingevano sulle scale della metropolitana o su quelle mobili della Rinascente. Infine quelle che con i carrelli la investivano nei supermercati. Erano amori solitari per il suo cuore solitario. Ma le sembrava potessero bastarle.

Dopo la partenza di Hubeyb e il suo ritorno da Roma, Malvina aveva ripreso la sua vita amorfa. Qualche collega le aveva chiesto notizie dell’ impresa romana. Qualche suo allievo ogni tanto ricordava momenti passati con lui. Soprattutto Angjelin che lo aveva avuto come compagno alla “Casa dei ragazzi” e Yousra che gli era stata amica. Senza secondi fini. Al di là della battutaccia di Mario Amargura Mendez.
Ora Malvina e Hubeyb comunicavano via mail. Piccole mail in cui lei s’informava del suo stato di salute e in cui lui rispondeva con poche parole in un inglese sconnesso.
Nessun riferimento a quanto era accaduto tra loro al St. Andrews. Solo una volta Malvina si era dilungata di più per renderlo partecipe della sua idea di fare una festa per i suoi 50 anni, alla fine della scuola. Avrebbe invitato alcuni colleghi – che il ragazzo conosceva -, suo fratello, il suo amico Baldi (che Hubeyb chiamava “my doctor”) con la moglie. E quella volta la mail fu piuttosto lunga.
Due sere dopo trovò la risposta.
Hello Malvina, I’m sorry. Yesterday look your message but ý don’t write because my granfather from village came to here. Your ages 50 possible but your inside young. Miss Malvina, thank you yesterday you go to the my hospital. How are my doctor and my nurses? From ý greatýng. I to miss once you and my doctor and nurses but I don’t to miss hospital because its days very important. Here everytýme look your green car; ship; t-short; your blue pen…ý remember old day with you very beautiful. You are speak very good englýsh. Where are you speak englýsh?
see you later by by çav
Malvina la lesse traducendosela mentalmente. Molti punti rimanevano, comunque, oscuri. Innanzitutto per l’uso inadeguato della lingua, poi per i pochi tasselli che lei conosceva della sua vita. Solo piccole tessere che lasciavano il mosaico per la maggior parte incompleto. Chi era, per esempio, quel nonno che veniva dal village? Commovente poi il fatto che lei fosse, ai suoi occhi, giovane dentro… che non lo fosse tanto anche fuori aveva, del resto, toccato con mano! La ringraziava per il documento che gli aveva procurato all’ospedale. S’informava della salute di my doctor, il suo dottore, e delle infermiere e mandava saluti a tutti. E quel to miss cosa voleva dire? Che le mancava? La commozione aumentò quando lesse che guardava sempre la piccola Panda verdina, la nave di legno, la t-shirt e la penna blu e che ricordava i giorni trascorsi con lei come bellissimi. Finiva con qualche complimento sul suo inglese (c’è sempre qualcuno più ignorante di noi, pensò Malvina). Per finire con quel misterioso see you later by by çav. Chissà cos’era quel çav.

La festa dei 50 anni di Malvina riuscì piuttosto bene. Non troppi invitati, ma solo persone care scelte tra amici e colleghi. Tra tutti, quello che primeggiò nel cuore di Malvina fu, però, suo fratello Lorenzo. Era venuto senza la moglie. E aveva ascoltato, come gli altri, l’appassionante vicenda del turco. Tanto che, a fine serata, aveva proposto alla sorella di andare insieme a trovarlo. Malvina aveva pensato che l’avesse detto tanto per dire. E non ci aveva fatto caso… se non per mandare la solita piccola mail a Hubeyb e dirgli che forse sarebbe andata in Turchia nel mese di luglio…
Il giorno seguente, acceso il computer, trovò:
Dear Malvina, how are you? know you? I very miss you. What time you here. Please you cames ımmediate.
Please my Italian Mother.
See you later
Di nuovo quell’incomprensibile I very miss you. Quello che la colpì di più fu quel (l’inglese era come sempre quello che era) “per favore, vieni immediatamente”. Alla mail che seguì, in cui lei cercò di prendere tempo e di cercare scuse, lui rispose:
Dear Malvina, I wait you come in Turkey when I very very happy. My really mother kill. Present my mother step but you one mother kind interested therefore I love you. Thank you very much.
When you go to from I very very greating
Malvina non fece che pensare a quella madre che si era suicidata – ne ebbe la spiegazione da Ardi che continuava a comunicare con lei con sms o mail -, alla matrigna attuale, al fatto che lei rappresentasse per lui una madre gentile e interessata e che per questo lui l’amava. Ora quell’ Italian mother della precedente mail aveva un senso preciso.

Furono queste mail a far sì che Malvina accettasse l’invito di suo fratello. Non aveva, in passato, mai avuto uno stretto rapporto con lui. Erano vissuti insieme per molti anni, nella casa dei genitori. Ma otto anni di differenza sono tanti quando si è giovani. Lorenzo era il più grande e già seguiva i corsi al Politecnico quando lei appena iniziava il liceo. Al Parini. Senza contare la differenza di sesso. Eppure, da quando la sorella era stata lasciata dal marito, lui si era sentito in dovere di starle vicino. Forse anche per un po’ di sensi di colpa… Né lui né sua moglie si erano comportati bene con lei, dopo la morte, nel giro di breve tempo, dei loro genitori.
Lui era riuscito a tenersi la casa di via Ponte Vetero – la loro casa -, lei ad appropriarsi dei gioielli più belli di sua madre. La sprovveduta Malvina si era dovuta accontentare dei rimasugli di eredità. E non era certo la persona adatta a fare storie… poi, presa com’era, dalle sue difficoltà coniugali. Perché Antonio, prima ancora di andarsene con Marthe, non le aveva risparmiato altri tradimenti. Lei, mite e remissiva, investita dal ruolo di madre, aveva pensato che suoi compiti fossero unicamente interessarsi alla crescita di Pier Paolo e all’insegnamento. Riguardo poi al fratello ne aveva sentito la mancanza, quando se n’era andata via da Milano, sposandosi in un’altra città, e mai aveva provato, nei suoi confronti, rancore.
Così, quando un giorno, le era arrivata la telefonata: «Senti, Malvina, io trascorro dei fine settimana solo in Bulgaria. Ora che hai terminato la scuola potresti venire a Sofia, poi con un’auto potremmo andare a trovare quel tuo allievo turco. Sarebbe un’occasione per stare un po’ insieme», a lei non era parso vero. Poter stare con il fratello quasi sconosciuto, con quel fratello un po’ traditore (Antonio lo detestava dopo che le aveva preso tutto quello che poteva), ma ugualmente amato come unico legame con la sua “vecchia” vita, unico legame con la sua famiglia di origine, e nello stesso tempo rivedere Hubeyb. Non si era fatta pregare e aveva cercato un volo per luglio. Ad essere sinceri era stato Lorenzo a prenotarglielo e pagarglielo sapendo che lei non navigava nell’oro.
Ripensò a quel “solo”. Ma perché trascorreva i fine settimana solo in Bulgaria avendo una moglie? Quel pensiero – come sempre tutti i pensieri di Malvina – durò poco più di un istante. Qualcosa immediatamente la distrasse.

**** **** **** ****

Il 13 luglio alle 12.00 atterrò all’aeroporto di Sófia. Lorenzo l’aveva avvertita che avrebbe mandato qualcuno a prenderla, perché lui doveva lavorare anche nel primo pomeriggio. «Prenderò un taxi» gli aveva detto. Ma Lorenzo era stato deciso: «Manderò io qualcuno». Senza aggiungere alcuna spiegazione. Malvina si chiedeva perché tutti dovessero sempre usare un modo così deciso con lei. Tutti… tutti tranne Hubeyb.
Si guardò intorno. L’aeroporto aveva un non so che di squallido. E, in ogni caso, non vide nessuno che l’aspettasse. Non osava però disturbare Lorenzo. Fu lui che, fortunatamente, la cercò. «Hai trovato la persona che ti ho mandato?». Malvina, con un certo imbarazzo, gli disse di no. «Ma dove sei?».
«Appena fuori dalla dogana»
«Vai verso l’uscita, se no…».
Malvina capì di avere, come sempre, sbagliato e, col cellulare all’orecchio, seguì i cartelli “Exit”. Davanti alla porta a vetri vide un uomo. Doveva essere lui. Lo comunicò al fratello. «Ingegner Barbieri» le disse con uno strano accento l’uomo. Poi le prese la valigia e, senza tante storie, si diresse all’auto. Lei lo seguì in silenzio.
Sempre in silenzio partirono. Lei davanti, di fianco a lui.
Lo spettacolo fuori dall’aeroporto non era dei più esaltanti. Una serie di baraccopoli e zingari ovunque. Poi ogni presenza umana scomparve e si trovarono a viaggiare, sempre in silenzio, circondati da montagne.
Malvina cercò di parlargli, ma l’uomo alle sue domande: «Do you speak English? Parlez vous français?» seppe solo scuotere la testa. Così decise di starsene zitta a guardare il panorama. Certo, se avesse avuto una persona in grado di spiegarle qualcosa… Ma andava bene anche così.
Era trascorsa più di mezz’ora e loro stavano sempre viaggiando. Le venne un po’ di paura… Ma dov’era l’azienda dove lavorava Lorenzo? Certo… ora iniziava a capire perché non le avesse fatto prendere un taxi…
Malvina guardava i monti Balcani, qualcosa di totalmente diverso dalle montagne italiane o svizzere che lei frequentava quando ancora abitava a Milano. La Stara Planina, come li chiamavano qui, erano montagne che mettevano addosso angoscia. E questa angoscia si andava aggiungendo a quella di stare al fianco di un uomo muto, incapace di sorridere, indifferente al silenzio.
Dopo più di un’ora d’auto arrivarono a Sopot. Solo allora Malvina ricordò che il fratello le aveva detto che l’azienda era fuori Sofia.
Di Sopot, città romantica di sapore ottocentesco, come diceva la sua guida, lei vide solo gli squallidi casermoni della fabbrica.
Sempre senza parlare il suo autista levò la valigia dalla macchina e si diresse a una porta. Qui il centralinista fece una telefonata. E, dall’alto di una scala, comparve una donna sorridente con cui finalmente poté scambiare due parole. La seguì poi per un lungo corridoio dove l’occhio le cadde su un cartello, fuori da una porta, con la scritta “Risorse umane”. Capì che questo era ormai il linguaggio vincente, quello che omologava industrie e scuole, quello amato dai suoi colleghi e da tutte quelle persone che avevano bisogno di sentirsi qualcuno. “Risorse umane” faceva venire in mente a Malvina “Riserva di caccia”. In ogni caso pensava che espressione peggiore non si sarebbe potuta trovare per definire esseri umani che lavoravano.
Lorenzo le andò incontro frettoloso. La fece sedere nel suo ufficio e la lasciò per tornare ai suoi impegni. Malvina guardò la sua scrivania. Il cartello rigido con “Ing. Barbieri – Ispettore tecnico procedure di stabilimento” le confermò che suo fratello aveva, nel suo lavoro, un ruolo importante. Un altro elemento che li differenziava, oltre l’età e il sesso. Poi levò dalla sua valigia il grosso volume delle “Memorie intime” di Simenon e s’immerse nella lettura.
Quando il fratello rientrò, lei era giunta, insieme al suo amato Sim, in America.
«Simenon?».
«Sì, la sua autobiografia».
«Ricordo che guardavi sempre “Il commissario Maigret” con Gino Cervi quando eri bambina».
«Mi piaceva tantissimo. La sua umanità, soprattutto. Anche la mamma lo guardava con me».
«In quel salotto che dava sulla via… Com’era bello. Dalla finestra si vedeva la chiesa del Carmine».
«Chi ci abita adesso in quella casa?».
«Gisella… da quando ci siamo separati».
«Non sapevo…».
«Non mi sembrava il caso, con i tuoi problemi, di affliggerti anche con questo».
«E come è successo?».
«Banalmente perché la carne ha urlato… ».
«Cosa vuoi dire?».
«…che se la carne urla, non puoi non rispondere… anche se sei sposato».
«E Gisella?».
«Se n’è accorta. Diciamo che non ho fatto niente perché non se ne accorgesse. Forse è stato un modo per liberarmi di lei. Non era un granché, dopotutto, come donna. In nessun senso.».
«Mi ero sempre chiesta perché ad un certo punto tu avessi scelto di andare a vivere in via Mozart… Pensavo che la nostra vecchia casa non fosse più adeguata a un uomo come te… ».
«Amavo quella casa. Quella che tu, giustamente, chiami la nostra casa e che io… Ma lasciamo perdere».
«Scusami, non volevo… Però, a volte, quando mi sento troppo sola, ci ripenso. Ripenso a mamma e a papà. A te. A me. A piazza del Carmine, a via Madonnina, a via Pontaccio, poi a piazza San Marco… tutte le strade che facevo per andare al Parini. Ripenso alle volte in cui mamma mi veniva a prendere in via Goito, all’uscita del liceo… non perché ce ne fosse bisogno, ma mi piaceva vedermela lì, elegante, ad aspettarmi e ritornare a casa con lei. Com’era affettuosa mamma!».
«E com’eri timida tu».
«Era bello rientrare poi in casa, con le ultime spese… sempre qualcosa che all’ultimo minuto le mancava… e mi piaceva, sai, spiarti nella tua camera mentre studiavi… e aspettare l’arrivo di papà…».
«Basta, Malvina, con i ricordi. Sarà il caso, adesso, di muoverci».
Malvina pensò: «Come sempre i tempi sono quelli degli altri, mai i miei».
Però l’idea di partire con quel fratello più grande e così deciso la entusiasmava. Poi quel “la carne urla” l’aveva proprio divertita. Un po’ meno l’idea che ora Gisella abitasse la loro casa. Ma pazienza. C’era di peggio e, forse, anche di meglio.
Quando salirono in macchina Lorenzo prese subito in mano la situazione.
«Ho prenotato un albergo a Edirne, la vecchia Adrianopoli. Il “Karavanserraglio”. Sembra che sia il migliore. Dovremmo farcela ad arrivare per l’ora di cena. Sono 260 Km. Calcolando che adesso sono le 16 credo che per le 19, le 19 e mezzo dovremmo esserci. Sì, tre ore. Massimo tre ore e mezzo di viaggio. Domani poi faremo una tirata fino a Çanakkale. Altri 200 Km. Ma il tuo allievo sa che arriviamo?».
Malvina si chiese se il fratello avesse saputo tutto… Chissà, forse l’avrebbe capita… in fondo anche per lei “la carne aveva urlato”… No, lei sapeva che non era proprio così… sapeva che era un vuoto quello che lei, tra le braccia del turco, aveva – erroneamente, d’accordo – cercato di colmare.
«Sì, ed è molto emozionato. Ti dico già che sarà un problema non da poco comunicare con lui. Non parla altra lingua del turco e pochissime parole d’italiano e d’inglese».

Il “Karavanserraglio” era una vecchia costruzione tipicamente turca. Lorenzo chiese le chiavi delle stanze. Sistemarono le valigie e uscirono a cena. I due fratelli erano allegri. Per entrambi, dopo molti anni, era un’occasione per stare insieme. Dopo cena visitarono la moschea. Lorenzo fotografò Malvina a capo coperto. Malvina Lorenzo davanti a coloratissime ceramiche. Poi entrambi, con l’autoscatto, si ritrassero insieme con lo sfondo dei minareti.
Il mattino seguente, dopo la colazione nel giardino dell’albergo, si diressero alla volta di Çanakkale.
Dovevano arrivare per tempo a Kilitbahir, per attraversare i Dardanelli. La giornata era bellissima e calda. Fortunatamente avevano l’aria condizionata in auto.
Lo spettacolo di quel lembo di terra che portava allo stretto era stupendo. Da una parte l’azzurro del mar di Marmara, dall’altra quello dell’Egeo. Qui la “carne urlava” anche per Malvina. Ma urlava in modo innocuo, senza disfare matrimoni…
Il traghetto era già lì. I fratelli salirono appena in tempo. Dopo soli pochi minuti, infatti, si staccò dalla riva. Si girarono entrambi a guardare il castello – una vera fortezza sui Dardanelli – che andava lentamente rimpicciolendosi.
Malvina era felice. Lorenzo pure.
Non più di venti minuti di mare ed attraccarono a Çanakkale. Quando scesero Malvina cercò con lo sguardo Hubeyb. Ma non vide nessuno. Provò a telefonare. Hubeyb le disse qualcosa che lei non capì. Si sedettero, allora, su una panchina. L’unica all’ombra in un piccolo giardino.
Fu sulla panchina che li avvicinò un ragazzo. «Miss Malvina?». Malvina si alzò prontamente e lo presentò al fratello. Si accorse però che non era Hubeyb solo quando le disse il suo nome, Mazhar, e che suo fratello li stava aspettando… dove? Capirlo anche il suo d’inglese! Salirono sulla macchina di Lorenzo e si diressero, sempre nella zona del porto, a qualche isolato di distanza. Posteggiarono si fronte a una copisteria. Lì, scendendo con agilità da una bicicletta, arrivò Hubeyb.
Ora era veramente un bel ragazzo. La testa ricoperta da una folta chioma scura faceva scordare lo stato in cui era quando stava in Italia.
Si abbracciarono. Si presentarono. Hubeyb con Lorenzo, Malvina con Mazhar, Mazhar con Lorenzo.
La copisteria, di loro proprietà, lavorava più che altro per striscioni pubblicitari. Era un locale enorme, ma semivuoto. Pochissimi i macchinari e antiquati. Poteva sembrare un luogo anni ’50. Di certo non del 2000.
Hubeyb volle in tutti modi donarle uno striscione con la scritta Malvina, perché lo mettesse sulla sua Panda.
Andarono poi, tutti e quattro, a pranzo insieme. Lorenzo non si trattenne dal fare al ragazzo la solita domanda, quella che altri avevano fatto prima di lui – a partire da Baldi – cioè il motivo per cui fosse finito in ospedale. Attimo di silenzio. Infine la risposta di Hubeyb: «No problem».
Come avrebbero fatto le sue allieve, Malvina dette un colpo alle gambe di Lorenzo, sotto il tavolo. Lui lasciò perdere.
Hubeyb e Mazhar vollero a tutti i costi pagare. Ogni tentativo di Lorenzo fu inutile. Dovettero accettare.
Era arrivato il momento di conoscere la famiglia Kazum. Salirono in macchina e giunsero, attraverso quartieri poveri, ma non squallidi, alla loro casa.
Un edificio a un piano, con un piccolissimo giardino sul davanti. La vegetazione arsa: si capiva che nessuno lo curava. Con una sua poesia, però, pensò Malvina.
Salirono i pochi gradini e, seguendo l’esempio dei due fratelli turchi, anche loro si levarono le scarpe. Quando Hubeyb aprì la porta, trovarono, schierati nell’ingresso, una donna a capo coperto, un uomo precocemente invecchiato, ma ancora con una certa bellezza (a Malvina ricordava Omar Sharif), una vecchia sdentata con turbante, quattro bambine.
La donna a capo coperto se ne stava in disparte. L’uomo venne incontro a Malvina. Un’espressione mite. Lei lo baciò. Vide, nello sguardo di suo fratello, un rimprovero. «Ho sbagliato nuovamente… sono musulmani» si disse. Poi le si accostò la nonna. La carezzava e le sorrideva dicendole qualcosa di incomprensibile in turco. Tenendola per mano la portò in una stanza. Gli altri li seguirono. Tre letti si susseguivano, due sulla parete lunga, uno su quella corta. Qui si sedette, incrociando le gambe, la vecchia. Qui volle che si sedesse Malvina.
Poi le prese una mano e se la posò su un suo piede nudo. Forse, per quello che aveva fatto per il nipote, la considerava una specie di santona?
Lorenzo la guardava divertito. Lei aveva il terrore di ridere. E rilanciava occhiate al fratello. Ora, in effetti, stava nascendo tra loro una strana complicità che anni di vita in comune non avevano saputo creare.
Furono portati dolci stucchevoli. Piattini colmi di Pişmanye. E il dialogo riprese nell’incomprensione più totale, tra sorrisi e sguardi curiosi delle piccole. Tutti tassativamente inginocchiati sulla vecchia moquette.
«Ora basta» disse a un certo punto Lorenzo sapendo che nessuno di loro avrebbe compreso «ora li salutiamo e ce ne andiamo a visitare Troia».
Quando Hubeyb e Mazhar intuirono le loro intenzioni e la fine della visita, tirarono in ballo una loro cugina che conosceva molto bene l’inglese. Malvina e Lorenzo furono costretti ad assecondarli, risalendo in macchina e dirigendosi verso un quartiere residenziale moderno. Era in alto. Da lì si vedeva il mare.
Di nuovo dovettero levarsi le scarpe per entrare nell’appartamento della ragazza. E qui Lorenzo decisamente perse la pazienza. Soprattutto per il fatto che la giovane sapeva, sì e no, tre o quattro parole più dei cugini.
Costrinse Malvina a dire che avevano già prenotato un albergo a Troia e che, realmente, si era fatto tardi.
«My brother and I will sleep in Troy… » disse timidamente Malvina.
«No problem» disse Hubeyb. Ma fu chiaro che anche loro tre li avrebbero seguiti.
«We will surely do that» sbottò allora Lorenzo.
Malvina capì che suo fratello non ne poteva più… Non i tre ragazzi che, non si sa come, s’infilarono nell’auto di Lorenzo.
A Troia si svelò l’arcano. Avevano organizzato per loro una visita guidata in inglese, con un turco che, finalmente, si faceva capire.
Visitarono le rovine, si fecero foto di fronte e dentro il cavallo di legno, bevvero in un piccolo chiosco. Hubeyb regalò un cofanetto con Ettore e Andromaca a Malvina. Tutto a loro spese. Con quella lira turca, che prima di essere sostituita, faceva costare, anche la più piccola cosa, nell’ordine dei milioni.
La tensione si era allentata. La commozione ne aveva preso il posto.
Tornarono così a Çannakale in tempo per il traghetto. Dimenticando la loro bugia. Neppure i cugini se ne accorsero, perché, nell’attesa della partenza, li riempirono di doni. Vasi e dolci. Ben cinque scatole di Pişmanye-cotton candy.
Si salutarono abbracciandosi tutti, ignorando qualsiasi usanza religiosa. Quando fu il turno di Malvina e Hubeyb, il ragazzo le bisbigliò nell’orecchio: «I don’t forget, I don’t forget… ». «Non dimentico, non dimentico… ». Questo era troppo: aveva imparato le parole inglesi per dirle che non si scordava… Malvina, mentre gli carezzava il capo maternamente, pensò che avrebbe voluto dimenticare. E, nello stesso tempo, ricordare. Era una donna scissa, una donna divisa in due. E ancora non sapeva quale delle due avrebbe avuto il sopravvento.
Appena partito il traghetto, Lorenzo si sedette su una panca dicendo: «Che stanchezza!». Ma Malvina capì che, come per lei, era, tutto sommato, una stanchezza piacevole.
«Vuoi un Pişmanye?» gli chiese ridendo.
«Cosa?»
«Dai, uno di quei cotton candy… »
«Non me ne parlare… ho ancora in bocca quel sapore nauseabondo».
«Io non li trovo cattivi. Si sciolgono in bocca. Più leggeri degli schiumini. E poi mi piace il dolce».
«Carenza affettiva, eh?».
«No, ti prego, mi fai venire in mente gli psicologi della mia scuola. Loro la vedrebbero così. La mia è banalmente gola. Gola, niente di più».
«E che ne farai di quelle cinque scatole?».
«Visto che tu non ne vuoi neanche una le userò come premio per i miei allievi migliori».
«Non mi sembra un grande premio per dei ragazzi… ».
«Perché tu pensi a come eri… a come eravamo noi, nonostante gli anni di differenza. Oggi i ragazzi hanno sempre qualcosa in bocca. In qualunque ora del giorno. Indistintamente maschi e femmine».
Cenarono a Gallipoli. Nel loro ristorante si festeggiava, con danze, un matrimonio turco. C’era molta allegria. Ma né Lorenzo né Malvina erano dei ballerini. Anzi, accomunava entrambi la negazione per la danza. Ugualmente respirarono quell’atmosfera gioiosa.
«Papà e mamma avrebbero sicuramente ballato» disse Malvina.
«Amavano ballare. Ricordi che invitavano persino degli amici a casa e ballavano, spostando i tappeti del salotto, con le canzoni di Aznavour?».
«Già, tutti i loro long playng! Sono sempre in via Ponte Vetero o li hai tu?».
«No, sono rimasti là. Speriamo che Gisella non li abbia fatti sparire… ».
«“Hier encore”… Hier encore/ j’avais vingt ans/ je carressais le temps/ et jouais de la vie… Era la preferita di papà. La cantava sempre».
«Non come mamma che era stonata… Però anche a lei piaceva cantare».
«E cantava con quei suoi ritmi tutti uguali… una canzone uguale all’altra… ma era così contenta».
«Anche tu eri contenta quando lei cantava… ».
«Ero contenta perché ero troppo timida per farlo io… poi mi sembrava che in quelle sue canzoni lei ci mettesse tanta anima e tanto amore… e io un po’ lo rubavo quell’amore, dalle sue note stonate… ».
«Ma nel ballare erano veramente unici. Nessuno dei loro amici ballava come loro… ».
«Beh, Lorenzo, loro si amavano».
«Vuoi dire che né tu né io sappiamo ballare perché non abbiamo mai amato… amato come loro?».
«Può essere… ».

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Nella casa di Çanakkale i due fratelli erano intanto già nella loro stanza. Le altre due stanze spettavano, rispettivamente, una ai genitori con le sorelle più piccole, l’altra alla nonna con le sorelle maggiori.
Loro, Hubeyb e Mazhar, i fratelli più grandi, figli della madre suicida, avevano una piccola camera.
«Avevi ragione. È bella Malvina» commentò Mazhar mentre si infilava una t-shirt per la notte.
«Sì, è bella».
Mazhar si era già sdraiato sul letto. Hubeyb tirava per le lunghe. Non aveva voglia né di commenti né di parlare col fratello. Voleva ripensare in solitudine a quella giornata.
«Capisco che tu sia stato molto bene in Italia curato da lei».
Hubeyb non aveva risposto sperando che il fratello si rendesse conto dell’inopportunità, per lui, di quelle affermazioni.
Certo, c’era confidenza tra loro. Molta. Ma ora no, ora Hubeyb voleva solo tempo per sé. Aveva troppe cose che gli passavano per la mente.
Tra queste, la più importante era che voleva tornare in Italia. Doveva solo trovare il modo.
Sul suo letto iniziò a pensare che avrebbe chiesto l’aiuto di Ibrahim per scrivere una lettera – finalmente in italiano – a Malvina.

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Ritornati il giorno seguente in Bulgaria, per Lorenzo e Malvina fu la volta di Plovdiv. Malvina fu fotografata dal fratello sui gradoni del teatro romano della vecchia Filippopoli. Poi, passeggiando per le strade del centro, Lorenzo le disse: «Le bulgare sono donne molto femminili. In azienda da noi ce ne sono che occupano posti importanti. Ma niente a che vedere con le donne in carriera italiane. Tutte prese solo dalla posizione. Qui lavorano sodo. Lavorano seriamente, ma il loro primo pensiero è per la famiglia. Per i figli, per il marito… ».
Malvina percepì un fondo di tristezza. Ma perché – a parte la carne che “aveva urlato” – le cose tra lui e Gisella non erano andate? Eppure lei non aveva ambizioni lavorative… in fondo sembrava contenta di dare una mano nella boutique di quella sua amica, alla Tenda in via Solferino. Non aveva responsabilità, ma l’occasione di incontrare personaggi noti. Via Solferino. La sede storica del Corriere. Perfino Montanelli entrava ogni tanto… poi Carlo Castellaneta veniva spesso a salutare la sua amica… Avrebbe potuto essere una donna soddisfatta e una moglie felice. Lorenzo aveva le sue colpe, ma non sono spesso le donne che portano gli uomini a tradirle? Malvina ripensava anche al suo di matrimonio e si faceva, mentalmente, domande incrociate. Lei e Antonio, Lorenzo e Gisella.
Il lunedì mattino, alle 9, fu lo stesso Lorenzo ad accompagnarla fino all’aeroporto di Sófia. Alle 7 avevano fatto l’ultima colazione insieme. Entrambi con una certa tristezza all’idea di lasciarsi.

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Nella ressa della coda per il check-in il sacco con i doni le cadde. I vasi fortunatamente non si ruppero. Le scatole dei Pişmanye si sparsero sul pavimento. Prontamente qualcuno gliele raccolse, prima ancora che lei facesse in tempo a chinarsi. Quando ringraziò si vide di fronte un uomo che, grosso modo, doveva avere la sua età. Sorrideva.
Salita sull’aereo se lo trovò accanto. Si misero a parlare. Fu lui veramente ad attaccar discorso per primo. Le chiese il motivo per cui era stata in Bulgaria. A Malvina non sembrò vero di potergli raccontare del suo viaggio, di suo fratello, del turco. Di lui seppe che lavorava per l’ambasciata bulgara, ma che viveva a Roma. Parlarono molto. E, per la prima volta in vita sua, lei si sentì tranquilla e padrona di sé. No, non era, forse, proprio la prima volta… perché anche dopo la notte al St. Andrews aveva avuto la stessa sensazione. Erano già due volte che, nel giro di pochi mesi, lei si sentiva un’altra.
Arrivarono a Roma in orario. Malvina si era ripromessa di telefonare a Pier Paolo, che ormai da due anni studiava lì, per stare un po’ con lui nelle ore di attesa del volo per Pisa. Si stava avviando all’uscita quando sentì la voce del suo compagno di viaggio dirle: «Mi sembra che lei debba aspettare quattro ore il suo volo… Che ne direbbe se mangiassimo un boccone insieme?». Malvina dimenticò subito il figlio (una dimenticanza voluta, questa volta) per accettare l’invito. Così, dopo neanche dieci minuti, erano, insieme, su un taxi. «Piazza Sforza Cesarini». L’auto partì immergendosi nel traffico della capitale.
Faceva molto caldo, ma questo non era sufficiente a smorzare l’euforia di Malvina.
«Senti, io sono Michele».
«Io Malvina».
Si diedero una vigorosa stretta di mano.
Quando il taxi si fermò scesero nella piazza alberata.
«Hai delle preferenze? Da Luigi o Polese?».
Malvina conosceva poco la città. Solo una volta, da bambina, vi era stata in visita con i genitori. Da adulta in qualche gita scolastica. Per niente le due trattorie. Ma non voleva più dipendere da scelte di altrui, né più essere remissiva. Poi con Michele… uno sconosciuto…
Ma cosa le stava capitando? Cosa ci faceva in mezzo a Roma con un estraneo? Era salita sul taxi senza neppure sapere il suo nome e, se non fosse stato per lui, lei non avrebbe assolutamente pensato di chiederglielo.
Di nuovo l’idea che altri avrebbero potuto sapere e giudicare le balenò nella mente. Ma fu, appunto, un lampo. Nient’altro. Era con uno sconosciuto perché così le andava, perché così aveva deciso, perché le dava più gioia essere con lui che non con Pier Paolo. Per cui non lasciò, come altrimenti avrebbe fatto, decidere ad altri e: «Da Luigi, si vede meglio la piazza» fu la sua risposta.
«Sono d’accordo».
Scelsero il tavolo e quando lei si sedette lui le si mise accanto «Non mi piace stare di fronte quando sono con una persona a cui tengo». Malvina provò un certo imbarazzo.
Michele era bello. Oggettivamente. Bastava guardarlo.
Era anche colto. Il suo lavoro lo richiedeva.
Ma soprattutto sapeva ridere.
Le raccontò un episodio con Bassani, di quando ancora era in vita e frequentava, alternatamente, ora l’una ora l’altra trattoria. Come sempre lo accompagnava il giovane indiano che la famiglia gli aveva dato come autista. Ma l’indiano non sedeva con lui e lo aspettava appoggiato al monumento bronzeo di Nicola Spedalieri, guardando le macchine che correvano lungo il corso Vittorio Emanuele.
Michele sedeva solo ad un tavolo. Lo scrittore solo ad un altro. Si scambiavano sempre cenni di saluto.
Una volta, appunto, mentre da Polese aspettava il suo carciofo alla giudea si accorse che Bassani, terminato il suo piatto di bucatini, si era tolto la dentiera e, indifferente agli sguardi degli altri avventori, aveva iniziato strane operazioni di pulizia. Fino a che l’indiano se n’era accorto e lo aveva portato via.
«Un po’ fuori di testa. Ma sempre un grande».
Ne risero insieme, lui e Malvina, ma con un certo rispetto. Il rispetto non solo per un vecchio, ma per una persona che suscitava in entrambi una grande ammirazione.
«Saresti piaciuta a Bassani».
«Perché?».
«Era un noto estimatore di belle donne».
Bella donna? Mai aveva pensato di esserlo, neppure quando era giovane. La bellezza credeva fosse qualcosa di cui non essere degna. Pensava fosse per le altre. Però… però qui, in questa Roma estiva, con un uomo come Michele, in un ristorante del centro, con lo sfondo della Chiesa Nuova, si sentì ancora una volta un’altra. Quell’altra. Quella che aveva iniziato a vivere in primavera, nella squallida zona di Termini, tra le braccia di un giovanissimo turco…
«Se non ti scandalizza la mia ignoranza, mi dici chi era Nicola Spedalieri?».
«Ma figurati! Siamo tutti ignoranti delle cose che non sappiamo. Comunque doveva essere un tipo tosto. È l’autore Dei diritti dell’uomo stampato e pubblicato a Roma dopo la Rivoluzione Francese ma, per volontà del papa, con la falsa indicazione di Assisi. Te lo vedi Giovanni Paolo II fare una cosa del genere? Il nostro abate si rifaceva alle concezioni rousseauiane riguardo la dottrina del contratto sociale… ».
Malvina già non c’era più. Si lasciava cullare dalle sue parole, ma la testa era via.
«…come origine della società, ma ne contestava la tesi di un originario stato… ».
Aveva fatto bene a volersi sedere accanto a lei, perché mentre parlava le poggiava sovente la mano sul polso. E per lei sentirsi toccare…
«… di natura a cui occorrerebbe tornare, perché soltanto all’interno della società civile l’uomo può realizzare i suoi bisogni di felicità e di perfezione. Basta. Esaudita la tua curiosità o ti ho annoiata a morte col mio sproloquio?».
«Ma come! Saresti un magnifico professore… » anche se a lei ora importava solo che fosse un magnifico uomo.
Terminato il pranzo, Michele le diede il numero del suo cellulare e si fece dare il suo. Le chiamò poi un taxi perché la riportasse a Fiumicino. Fu lui stesso a dire all’autista la destinazione. Col suo fare deciso, ma non prevaricatore. Malvina ne percepì anzi un tono protettivo.

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Ormai era piena estate. Scuola chiusa. Tempo di vacanze. Malvina le trascorse in parte nella casa di campagna di una sua amica, in parte con Lorenzo alle terme. Non era mai stata a Saturnia. Mai si sarebbe potuta permettere un bell’albergo. Col fratello dividevano le giornate tra le cure e giri d’arte. Andarono a Massa Marittima. Un giorno raggiunsero Cortona. Un’altra volta la valle d’Orcia.

Dal diario di Malvina:
«25 agosto 2…, ore 19. Siamo appena rientrati qui, nel nostro bellissimo Relais Villa Acquaviva, da San Quirico. Uno spettacolo eccezionale, quello della val d’Orcia. Ormai con Lorenzo sto benissimo… talmente bene che vorrei raccontargli di Hubeyb e magari anche di Michele. Poi penso che è un uomo e so che gli uomini faticano comunque a capire certe libertà delle donne… anche… anche se sono fratelli. Non scordo la vicenda tra Yousra e Mario Amargura Mendez… Fin da giovani i ruoli si stabiliscono. Netti. Immutabili. Inamovibili.
«Ora mi cambio per cena. Ho appuntamento giù per le 21. Spero che la cena non duri troppo. Sogno solo di sdraiarmi in questo bel letto dalle lenzuola candide. Perché sono già diverse notti che non faccio che pensare a lui. Se devo essere sincera è da quando mi ha salutato, al finestrino del taxi, sul corso Vittorio Emanuele assolato, che l’ho sempre con me, fisso nella mente. Mi domando perché non mi abbia ancora telefonato. Capisco che come avventura non sarebbe delle più comode… Sarà per quello? O sarà perché non sono una ventenne? Un uomo così può avere qualsiasi donna… Eppure mi sembrava che anche lui… Non lo so… Chi ci capisce più niente.
«So però che in queste notti, con le finestre aperte sulle colline, in questo letto dalla testata di legno, la carne “ha urlato” anche per me. Un urlo di desiderio potente, un urlo a cui vorrei rispondesse Michele… ».

**** **** **** ****

Pier Paolo tornò a casa per una settimana, a fine settembre. Malvina aveva già ripreso la scuola. Fu, come con Lorenzo, più che un incontro, una rivelazione. Suo figlio si stava facendo uomo. Aveva mille premure per lei e come mai, in tanti anni, riuscirono a parlare serenamente. Parlarono degli studi e degli amori del ragazzo. Malvina, per la prima volta, visse questo rapporto non all’insegna del dovere, ma contenta di fargli da madre attenta e amorosa. Guardò con tenerezza al suo disordine e allo scompiglio che portava nella sua monotona vita.
Anche Pier Paolo intuì un cambiamento in lei. La vide più sicura e più serena. E ne fu felice.
Riuscì anche ad ascoltarla come difficilmente era successo in passato.

«È stato per una contrazione nell’organico che mi hanno dato anche una classe al Barsanti. Così dovrò dividermi tra due scuole. E avrò tutto doppio. Doppi collegi, doppi ricevimenti… ».
«Magari in quest’altra scuola ci saranno elementi più civili rispetto alle tue solite classi multietniche del Maraini… ».
«Figurati! Si vede che è tanto che non vivi qui… Non ricordi la fama del Barsanti? La scuola peggiore della città. Multietnica e violenta. Tutta maschile. Scuola per meccanici e per elettricisti… ».
«Una scuola per te… Non sei sempre stata pasoliniana?».
«E per chi se no ti avrei chiamato Pier Paolo?».
«So di aver rischiato anche Gian Giacomo… ».
«Pensala come vuoi. Di certo non ti avrei chiamato Giulio. Se si parla di editori, Feltrinelli per me è il più grande. Il più coraggioso».
«Einaudi è troppo borghese, immagino».
«Ovvio».
«Di sicuro starai meglio in una classe con ‘ragazzi di vita’ che in un liceo».
«Su questo non ci sono dubbi. Detestavo venire a parlare con i tuoi professori del classico. Un olimpo di mezze calzette. Loro e i genitori dei tuoi compagni».
«E io ne subivo le conseguenze di questo tuo tenerti in disparte… ».
«Mi dispiace, ma, credimi, sono mille volte meglio i delinquenti del Barsanti con tutte le loro provocazioni».
«Quali provocazioni?».
«Beh, vedere fino a che punto si può tirare la corda… vedere quando uno, o soprattutto una, crolla».
«E tu?».
«Per ora sto ancora in piedi. Ma rientro a casa distrutta. Non si fanno lezioni al Barsanti: è tutto solo un corpo a corpo».
«Cioè?».
«I ragazzi mica stanno seduti… tutti alla finestra se c’è…».
«Se c’è?».
«Se c’è fia. Insomma mi imbarazza un po’ parlare di questo con te».
«Dai! Vai avanti e dimmi come reagisci».
«Di certo non scandalizzandomi. Massima indifferenza. Due giorni fa, purché seguissero, ho permesso che due alla volta andassero alla finestra a vedere le ragazze che passavano per strada, fia appunto, come dicono loro. Si contratta. Mai su un pulpito, mai prediche… ».
«E loro?».
«Se la contrattazione viene accettata, per dieci minuti di fila seguono».
«E cos’altro fanno?».
«Ti ho detto: provocano. Una volta facendoti trovare giornali porno sulla cattedra. Non ti resta che ringraziare. Dire che così saprai cosa leggere la sera. Magari chiedere se è un dono collettivo o il pensiero di uno solo… A volte provocano anche in modo più pesante».
«E come?».
«Sono sempre tua madre e mi vergogno».
«Mamma! Ti prego… ».
«Insomma, ti si avvicina uno fingendosi interessato a un articolo di Focus… un articolo sui peli… ti mostra foto di sopracciglia, ciglia, barbe, baffi, peli ascellari… finché si arriva a quella dei peli pubici femminili… e… ».
«E?».
«E… e mi chiede se anch’io ce l’ho così! Ti senti morire, credimi. Di vergogna. Di schifo. Di rabbia. Ma sai che non devi cedere… ».
«E cosa dici?».
«Resti sconvolta, ma non te lo puoi permettere. Sai che devi trovare una soluzione nel giro di pochi secondi. E deve essere quella giusta. Non so dirti come, ma so che fingendo la più totale indifferenza gli ho detto: “Caro Lencioni, hai due opzioni: o ti do una sberla e ti giro la testa dall’altra parte o faccio una telefonata alla tua mamma…”».
«E lui?».
«Spaventatissimo… all’idea della madre! Alla fine sono dei bambini. Ti chiedono perfino di portargli dei dolci. Una mattina sono arrivata con una scatola di Pişmanye-cotton candy. L’hanno divorata».
«Immagino un dono di quel ragazzo turco… ».
«Sì, di Hubeyb». Malvina si accorse immediatamente dello sguardo del figlio: sapeva che ne era geloso… che era geloso che lei gli avesse fatto un po’ da mamma. Allora riportò il discorso sugli allievi del Barsanti.
«Però la mia tontaggine non sempre aiuta».
«Cosa intendi?».
«Voglio dire che non puoi proporre a dei semi-pervertiti di sederti accanto a te, alla cattedra, perché seguano dei documenti storici – esemplificati al massimo – sul tuo libro visto che loro o non hanno il libro di testo o, se ce l’hanno, lo lasciano a casa».
«Certo che al classico un comportamento così, diciamo democratico, era impensabile. Immagino che anche quando tu frequentavi il Parini ci fosse un certo rigore».
«Altro che certo. C’era rigore e basta, pur essendo anni di rivolte. In ogni caso non è il mio essere più o meno democratica il punto. Il punto è che quei maledetti ti fanno piedino e la scema di tua madre si scusa pensando di averli colpiti per sbaglio con la scarpa. Poi ti si sfregano alla gamba e, sempre più scema e infervorata nella spiegazione, con noncuranza ti sposti pensando che non vedano bene il libro. Quando – finalmente! – senti risolini sommessi e vedi scambi di occhiate, allora anche quelle come me si svegliano».
«E una volta sveglie che fanno?».
«Fanno capire chiaramente di essersene accorte. Ridono di se stesse. Gli chiedono se si sono divertiti abbastanza e così per altri dieci minuti si fa ancora qualcosa».
«Deve essere dura… ».
«Ti ho già detto: un corpo a corpo psico-fisico. Senza contare i momenti di paura quando ti fanno presente che potrebbero violentarti senza che nessuno se ne accorga visto che la tua aula è in fondo a un lungo corridoio isolata dalle altre. E anche lì butti sul ridere o fingi di non sentire».
«Allora coi multietnici del Maraini ti sentirai in paradiso… ».
«Sì, certo. Le classi sono miste, anche se sovente proprio le ragazze sono le più violente. Insomma, in ogni caso, è faticosa la scuola oggi».
«Però non ti arrendi: niente borghesucci di un classico di provincia».
«No. Quelli proprio no».

Dal diario di Malvina:
«30 settembre 20.., ore 15. Ho appena finito di sistemare la cucina. Pier Paolo è qui per pochi giorni e non riesco a rispettare i miei orari. Non importa. Abbiamo parlato molto lui ed io. Mi ha raccontato che con Simone è finita e ora sta con una ragazza romana. Gli ho chiesto se ne fosse innamorato. Mi ha risposto di esserlo stato molto… Non ho voluto chiedergli di più. Del resto è arcano il regno dei sentimenti ed è inutile cercare di sondarne il mistero. Sono felice che lui sia con me. Mi sembra più uomo e più protettivo nei miei confronti».
.
Il giorno della partenza, Malvina accompagnò il figlio alla stazione di Viareggio. Con lo stesso treno con cui lei era andata da Hubeyb in aprile, Pier Paolo, ora, tornava a Roma. Era il suo giorno libero. Ma ugualmente dovette lasciarlo velocemente al binario per tornare a scuola: l’ennesima riunione pomeridiana di inizio anno scolastico. Il Maraini rispetto al Barsanti aveva questo di negativo: non te ne risparmiava nessuna di quelle maledette riunioni. Inutile che fosse.
Rientrò a casa solo verso sera. Il telefono suonava. Non fece in tempo – sempre carica di libri com’era – ad aprire e a correre a rispondere.
Posò i libri. Andò in bagno. Si pettinò. Si passò sulle labbra un rossetto delicato. Poi uscì per andare al cinema. Aveva ripreso gusto alla vita.

Arrivò trafelata al Fellini d’Essai.
Quando entrò nella sala semioscura vide, nella sua fila, Andrea. Solo. Chi si ricordava più di Andrea? Erano stati colleghi molti anni prima in una scuola media, in una zona scomoda da raggiungere. A volte lui le offriva un passaggio. Lei acconsentiva per comodità, per ritornare il prima possibile da Pier Paolo. Altre volte le aveva proposto di mangiare con lui. Ma in questo caso no, non aveva mai accettato.
«Che stupida sono sempre stata» si disse mentre scivolava nella sua direzione in cerca di una poltroncina libera «con Antonio che si prendeva tutte le sue libertà… io, invece, con un senso del dovere smodato».
Le luci si spensero mentre si stava sedendo di fianco al collega. Lui si girò: «Malvina… finalmente. Non ti sei più fatta vedere né sentire». Dovettero tacere perché dalla fila retrostante arrivarono fastidiose intimazioni al silenzio.

“La finestra di fronte” di Ozpetek non era male, ma molto meno bello de “Le fate ignoranti”. Su questo concordarono sia Malvina sia Andrea. Per Malvina poi era comunque il film di un turco…
All’uscita dal cinema Andrea le propose una pizza. Lei accettò. E a tavola parlarono delle rispettive scuole.
Andrea non era un grande affabulatore. Pochi cenni a un ambiente grigio sia per i ragazzi sia per i colleghi.
Malvina, invece, si divertì a raccontare nuovamente le vicende del Barsanti con tutte le provocazioni a cui veniva quotidianamente sottoposta. E anche la storia del turco. Nelle parti che le sembrò di poter narrare.
«Ci pensi come si può trovare un’impaurita di tutto come me!» aveva concluso ridendo.
«Tu impaurita?».
«Impaurita… sì. Sempre col timore di non essere all’altezza… ».
«Guarda che è un’idea tua. Io – e non sono il solo – ti ho sempre vista come una donna molto sicura di sé, molto decisa».
«Questa poi… ».
«In ogni caso potremmo combinare per vedere qualche altro film insieme, visto che mia moglie non ama uscire la sera».
Malvina pensò che c’era una moglie di mezzo. Ma, concluse tra sé, non era un problema che la riguardava.
Si lasciarono scambiandosi i numeri di cellulare.
Andrea, mentre tornava a casa, pensò che nella sua vita grigia – grigia come i suoi colleghi e i suoi allievi – l’incontro con Malvina poteva essere un inizio. Anche se non gli era ben chiaro di cosa.

Dal diario di Malvina:
«7 ottobre 20…, ore 23.45. Che strano uomo Andrea! Bello? Non direi, ma neanche brutto… insomma uno di quegli uomini che si possono definire “un tipo”. Un tipo… sì, un tipo con un suo fascino… forse il fascino di una tristezza che sembra possederlo e da cui non riesce a liberarsi. Lo guardavo stasera mentre parlavamo. Lo guardavo mentre mi guardava parlare. Mi accorgevo che seguiva molto attentamente i miei racconti. Sembrava realmente interessato. Forse dalle mie parole si aspettava qualcosa che gli svelasse chi si trovava di fronte…
«Ora ripenso al film, ripenso a Ozpetek, ripenso a Hubeyb. In alcuni momenti – come questo – mi manca. Mi manca quello che abbiamo vissuto insieme. So che non accadrà mai più. La vita è stata più forte di me in quell’aprile romano. Adesso so che sono io più forte di lei. E me ne dispiace… ».

Chiuse il diario. Andò alla libreria dove, come se fossero dei volumi, aveva messo le scatole dei cotton candy. Si mise a leggerne le scritte: BOĞAZIÇI, PIŞMANIYE -1974, Izmit-Turkey. Tra le parole, la foto dei dolci su un piattino. Proprio come le erano stati offerti in casa dei Kazum. Non poté fare a meno di mangiarne uno. E non per gola.
Lo mangiò come se fosse stato una madeleine proustiana.

**** **** **** ****

Aveva aperto il portone e cercava la chiave della posta. Affaticata dopo una mattinata a scuola. Dal vetro della cassetta si vedeva una busta.
«L’ennesima bolletta» pensò Malvina. Aprì e trovò una lettera. Timbri e francobollo turchi. Salì rapidamente le scale, entrò in casa, lasciò libri e giacca nell’ingresso e andò al suo scrittoio. Non trovò il tagliacarte. Di andare in cucina a prendere un coltello non ne aveva voglia. Si aiutò con le chiavi di casa e finalmente – anche se in modo grossolano – la busta fu aperta. Ne estrasse la lettera. Emozionata iniziò a leggere.

«Gentile Signora Malvina, mi chiamo Ibrahim e scrivo da parte di Hubeyb che vuole che Lei riesce a capire quello che vuole dire. Perdona gli errori che trova e anche da me grazie per quello che a fatto per il mio amico che è più giovane. Questo è quello che vuole che dico e che io cerco di tradurre.
“Cara Miss Malvina, io ti devo sempre dire grazie per avermi aiutato quando ero in Italia e non ciera la mia famillia. Grazie anche per essere venuta da me in Turchia, a Çanakkale, e aver conosciuto la mia famillia. Tu sai che mia madre vera è morta uccisa da sola e quella che hai visto non è mia madre vera. Tu sei la persona che amo di più. Sei tu e mia nonna che ai conosciuto. A lei piaci molto. Io voglio venire da te la estate quando non lavoro con mio fratello Mazhar. Vollio vedere anche dottor Baldi. Ma vollio sopra tutto stare con te e fare un lungo viaggio in Italia con te. Per fare il viaggio devo avere un permesso che tu devi firmare alla mbasciata turca di Roma. Se lo firmi io vengo e facciamo il viaggio. Tu sei la mia mamma italiana. Spero che lo firmi. Ti saluto, Miss Malvina
Hubeyb Kazum”
Gentile Signora Malvina, molti grazie e saluti da
Ibrahim Balikci».

Ora non c’era solo emozione in Malvina. C’era anche timore. Non stava forse tutto diventando un gioco troppo pericoloso?
Guardò l’ora. Le 13.30. Se non fosse stato a tavola… E se anche fosse stato… Con decisione prese il cordless e compose il numero di Baldi.
Rispose direttamente lui.
«Oh, Martina!».
«Malvina. Mal-vi-na!».
«Prima o poi vedrai che lo dirò giusto il tuo nome… Ma, qualcosa non va?».
«Ho bisogno di un consiglio. È per via del turco… ».
«Già, come si chiamava? Figuriamoci se uno come me che sbaglia sempre il tuo nome si può ricordare un nome turco!».
«Hubeyb. Hubeyb Kazum. Hai tempo per ascoltarmi cinque minuti?».
«Se la cosa è urgente sì, altrimenti visto che domani dovrei finire i controlli ai pazienti della Maria Ausiliatrice in mattinata, se sei libera, potremmo mangiare un boccone insieme».
«Sì, va bene… Io termino con le lezioni alle 12.15. Dove vuoi che ti aspetti?».
«Vieni fuori dalla clinica. Scenderò per le 12.30. Cercherò di essere puntuale».
«Non preoccuparti. A domani».

La mattina successiva Malvina uscì come sempre di corsa. Ma dovette rifare le scale e rientrare in casa quando si ricordò di avere dimenticato la lettera di Hubeyb.
Le ore a scuola (era al Maraini di mercoledì) non la stancarono troppo e, puntuale, alle 12.30 si trovò fuori dalla clinica Maria Ausiliatrice.
Arturo Baldi, come promesso, non si fece aspettare e solo dopo pochi minuti la raggiunse. Era allegro.
«Ti trovo benissimo» le disse appoggiandole un braccio sulla spalla «passati i tempi brutti, vero?».
Malvina non restò insensibile a quel contatto. Come in passato, l’essere toccata le dava una strana euforia. Anche ora che, come diceva Arturo Baldi, i tempi brutti erano passati. Ma che ne sapeva lui? Lei gli aveva parlato sia dell’abbandono di Antonio che della morte dei suoi, questo è vero… , ma che ora avesse in parte superato quello stato di dolore a lui non ne aveva fatto cenno.
Ne parlarono seduti alla Trattoria del Bei.
«I tempi brutti non passano mai. Diciamo che si arriva al culmine della sofferenza, poi, lentamente, si cerca di scordarla. Si cerca di pensare e di fare altro. Resta comunque dentro di noi. Anche se cambia forma».
«Ma tu sei una donna forte… ».
«E dove la vedi questa mia forza? Nelle lacrime che da sola – a volte anche davanti a te – ho versato? In quei miei pianti ininterrotti non appena chiudevo alle spalle la porta di casa? Nella disperazione che mi è stata compagna in questi anni? Forte… , ma dove forte?».
«Dove? Te lo dico subito dove! Una donna debole si prende l’impegno di un ragazzo turco? Lo segue fin che è nella casa di accoglienza per stranieri… sì, questo lo farebbero in tante… le amanti delle cosiddette opere di bene!».
«Che tu odi… lo so».
«Certo che le odio… figure inutili, vagabonde, in cerca di alibi per la famiglia e la società… ».
«Allora odi anche me… ».
«I tuoi non erano alibi. Tu eri sola. Via tuo marito. Via tuo figlio. Tu, al turco, hai lavato piedi e mutande. Gli hai fatto ritrovare la manualità. Lo hai aiutato a camminare. Sei stata la sua fisioterapista. Altro che quelle sceme.
Una donna debole lo accetta in classe… sì, forse anche questo lo avrebbero fatto molte insegnanti… anche se non propriamente deboli. Ma chi, se non una donna forte e decisa, si sarebbe presa l’impegno di accompagnarlo a Roma, provvedere alla sua partenza e a tutto quello che questa comportava?».
Malvina ebbe un attimo di smarrimento. Per l’ennesima volta si chiese se Baldi avesse saputo tutto… tutto di lei e Hubeyb nella notte al St. Andrews.
«Beh, saresti quasi convincente sulla mia presunta forza. Ma ora leggi». E dalla borsa estrasse la lettera che Hubeyb le aveva scritto con parole dell’amico Ibrahim.
Arturo era un uomo deciso. Per certi aspetti anche un po’ rude. La sua reazione fu immediata. Non un attimo d’incertezza.
«Senti, Mar… Malvina, lascia stare il turco. Questo è innamorato di te. E lo credo… Chi non lo sarebbe a quell’età trovandosi intorno una donna bella… ».
«Ma ho cinquant’anni! E lui potrebbe essere mio figlio. Anzi, ha due anni meno di Pier Paolo».
«Ma non è tuo figlio! E tu sei una donna ancora giovane… Ho ben chiaro il fascino e l’attrattiva che può suscitare in un ragazzo una donna come te… Ricordo perfettamente cosa ho provato per la mia insegnante di francese… e avevo tredici anni, altro che ventidue! Ma un uomo è un uomo. Tredici o ventidue anni che abbia. O sessantatre, come me. Lascialo perdere. Poi il discorso delle firme all’ambasciata. Lui è innamorato. E fin qui ci siamo, ma gli altri? Questo Ibrahim che scrive? E se il tuo turco se ne porta altri, magari non innamorati e solo malintenzionati? Lascia perdere tutto e non ti mettere nei guai. Di bene gliene hai già fatto abbastanza».
«Vorrà dire che seguirò i consigli del mio saggio amico… ».
«Amico… e se non volessi esserti solo amico? Tu sei libera… e io, da tempo, non devo più rendere conto in famiglia… E non sono turco!».
Malvina si limitò a sorridere. Una storia con Baldi… No, non era per lei. Si lasciarono con la promessa di rivedersi. Ma Malvina sapeva che non ci sarebbe stata un’altra volta. Almeno non con lui.
Arturo Baldi, quando salì in auto per tornare in ambulatorio, non poté non pensare che con Malvina la sua vita avrebbe forse potuto avere una svolta. Gli era sempre piaciuta, del resto. La trovava bella. Intelligente. Con lei avrebbe potuto iniziare qualcosa di nuovo. Lei avrebbe potuto essere un inizio.

**** **** **** ****

Dal diario di Malvina:
«Mercoledì, 9 ottobre 20…, ore 17. È comunque tutto incredibile. Tutto decisamente incredibile. Ancora all’inizio di quest’anno ero una donna sola e afflitta. Vivevo in apnea. Si vive sempre in apnea quando si vive al di sotto delle proprie possibilità. Di possibilità che non ci sfiora neppure il pensiero di avere. Invece da aprile – né più né meno di mio marito – sono stata a letto con un ventenne, ritrovo un fratello, mi accorgo che gli uomini mi guardano, riscopro un figlio maturo. Ma allora la speranza non deve morire! Il caso, il destino e, perché no?, mettiamoci anche la Divina Provvidenza esistono, bisogna che lo riconosca».

Il pensiero di Hubeyb tuttavia non la abbandonò. Se ne sentiva responsabile.
Da parte sua Hubeyb, a Çanakkale, iniziò ad aspettare.
Kazhum lo sentiva nel sonno pronunciare sommessamente il nome della donna. Ma per rispetto non gli chiese mai niente.
Alla sua lettera non ci sarebbe mai stata risposta. E la sua attesa si sarebbe rivelata, dopo mesi di silenzio, vana.

La sera Malvina ricevette la telefonata di una sua amica. Un invito a cena. No, non ci sarebbe andata. Era ancora turbata per Hubeyb. Per quel no che si sentiva costretta a dirgli. Che sapeva era saggio dirgli… proprio non dicendogli nulla. Facendo sparire le sue tracce. Lasciando cadere tutto nell’indifferenza. Ma mai – di questo era certa – mai lo avrebbe dimenticato. Come forse mai lui avrebbe dimenticato lei. Non era più, però, tempo di sogni. Quello che era avvenuto era stato importante. Fondamentale. Ma ora sapeva di dovere andare avanti. Ugualmente, quando prese sonno, il suo pensiero, fu per lui. Per quel ragazzo turco, per quelle sue lunghe braccia, per quella sua grande mano sulla sua pancia…

La mattina dopo, giovedì, era di nuovo al Maraini. Al Barsanti aveva il venerdì e il sabato, tanto per chiudere la settimana in bellezza!
Quando entrò in classe ragazzi e ragazze si accorsero che c’era qualcosa di diverso in lei. Ciò nonostante le chiesero se si fosse ricordata dei dolci di Hubeyb.
«Sì, certo. La scatola dei Pişmanye è qui» disse mentre la appoggiava sulla cattedra. E, senza tanti preamboli, attaccò subito col discorso sull’importanza del riassunto. Qualcuno cercò d’interromperla. Lei non lo permise. Poi, con passo deciso, andò al banco di Alexandra, la rumena, e le sequestrò il diario. La reazione della classe fu di stupore. Mai l’avevano vista così decisa…

Dal diario di Malvina:
«Giovedì 10 ottobre 20.., ore 17. Non so se continuerò ancora con questo diario… non mi sembra sia più il tempo…
«Questa mattina a scuola quando ho visto Alexandra, la rumena, intenta a scrivere il suo, piccolo e rosa, l’ho raggiunta alle spalle. Continuavo a spiegare le cinque W per fare un buon riassunto. Lei non si è accorta della mia presenza. Katarina, la bosniaca, le ha dato una gomitata. Lei non ha capito e ha continuato a scrivere. Scriveva fitto fitto. Con mano veloce gliel’ho sottratto. Lei è arrossita. Come è garbata Alexandra! Mi ha guardata con quei suoi occhi azzurri. Imploranti. Ha tentato di giustificarsi. La voce sommessa. Le è venuta in aiuto Katarina. “Professoressa, anche se scriviamo noi riusciamo ad ascoltarla. Davvero, professoressa”. E stava composta nel banco e mi guardava in faccia. Che meraviglia! Una voce di giovane donna modulata con armonia. Un corpo che ha una forma e una postura e non s’affloscia come un sacco. E poi senza quell’insopportabile “prof”. È davvero insopportabile, come insopportabili sono tutti quei troncamenti “mi ma’”, “tu pa’”. Sì, le mie allieve italiane sono simpatiche, ma di una rozzezza spaventosa, quasi spaventosa come quelle mie colleghe che, per darsi un tono, parlano col birignao.
«Alexandra e Katarina sono invece, naturalmente, femminili e educate. E lo sono anche Debora, la brasiliana, Nicole, la filippina e Lisette, la bellissima ghanese. Poi c’è Yousra, la marocchina. Yousra: una forza della natura, una femminilità prorompente. Yousra selvaggia, pronta a sbranare la mite Alexandra. Yousra che sorride con i suoi denti bianchissimi. Yousra… quasi una principessa del deserto…
«Ho sottratto il diario ad Alexandra e le ho detto in modo deciso: “A scuola si viene per imparare, non per scrivere stupidaggini. Questo lo tengo io. Se lo rivuoi manda tua madre a prenderlo”. Gli occhi di Alexandra si sono riempiti di lacrime. Anche Katarina era turbata. Le altre ragazze hanno taciuto e pure i ragazzi. Solo Yousra ha osato dire: “Non è mai stata così cattiva, prof”. Non potevano capire, e, in qualche modo ora avrei dovuto dare loro una spiegazione. Come, però? Potevo forse dire che avevo capito molto della vita perché avevo fatto l’amore con Hubeyb? Senza arrivare a tanto dovevo cessare di essere la Malvina insicura e impaurita. Gentile per paura di essere sgarbata. Buona per timore di essere cattiva. Era ormai il momento di dimostrarmi donna con loro.
“A scuola si viene per imparare, per imparare a essere qualcuno e non per nascondersi tra le pagine di un diario. Non ho nulla da insegnarvi della vita, ma vorrei che questo voi lo capiste. La vostra vita inizia adesso, ma ci saranno continui altri inizi e voi dovrete essere preparate. Ci saranno inizi a 20, a 30, a 40, a 50, a 60, a 70 anni e anche oltre. Insomma: ogni anno che voi vivrete potrà essere un inizio. E io vi voglio preparate. Vi voglio coscienti. Vi voglio, soprattutto, in grado di poterne coglierne ogni attimo di felicità”.
“Io non capisco cosa vuole dire, professoressa” è intervenuta col solito garbo Katarina.
“Davero! Io non ho capito nulla” ha aggiunto con fare più brusco Yousra.
“Davvero con due v: quante volte te l’ho detto?” non ho potuto fare a meno di ripeterle.
“Sì, ma io non capisco. Tutti questi inizi! Ma inizi di cosa?”. Yousra era realmente perplessa.
“Inizi di vita. Perché non si nasce solo una volta, ma tante volte”.
“Allora ci vuole dire che lei è rinata?”.
“Sì, a cinquant’anni. E anche voi potrete rinascere altre volte. Più volte di quanto non sia successo a me. Perché eccetto quando si nasce la prima volta biologicamente – e non è una nostra scelta – tutte le altre volte dipende da noi. Esclusivamente da noi. Ricordatevelo”.
«Le ho viste turbate e, inaspettatamente, silenziose. Yousra compresa. Io stessa non mi riconoscevo…
«Nessuno più ha avuto il coraggio di chiedermi i Pişmanye … ».

Finito di scrivere il diario, Malvina si mise a correggere compiti. Poi decise che era tempo di mangiare qualcosa.
In cucina la lucina rossa del telefono lampeggiava: doveva esserci un messaggio nella segreteria. Sul display il messaggio datava lunedì 7. Si rese conto di non aver ascoltato messaggi per almeno quattro giorni. Premette il tasto. Una voce allegra diceva: «Ciao, sono Michele. Che ne diresti se sabato ti venissi a trovare? Aspetto… ».
Era Michele che la chiamava. Dopo più di due mesi…
Michele… Lei lo sentiva che non l’avrebbe scordata. Forse anche in questo mostrava la sua sicurezza? Nel sapere che era solo una questione di tempo? Nel sapere aspettare?
Le vennero in mente le parole di Dante: “Incipit vita nova”. Sì, proprio con Michele avrebbe potuto avere inizio la sua nuova vita. Ora lo avrebbe richiamato. E gli avrebbe detto che sabato lo aspettava.

Probabilmente, se Malvina avesse continuato il suo diario, avrebbe scritto che questo era un inizio.

Lucca, 6 febbraio 2010 – Fiumetto, 25 settembre 2010

La foto di apertura è di Mariapia Frigerio

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